Il sogno dell’Alchimista

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Giancarlo Guerreri

Racconto Appennino ligure A.D. 1127     Eliot aveva camminato tutta la notte,...

Racconto

Appennino ligure A.D. 1127

 

 

Eliot aveva camminato tutta la notte, le scarpe piene di fango non erano servite a proteggerlo dalla pioggia battente che rendeva il selciato lucido di riflessi mattutini.

Una fredda alba dai toni pastello aveva deciso di dar inizio alle danze di una lunga giornata autunnale; le foglie, ormai marcite nei mesi passati, lasciavano una striscia viscida di poltiglia vegetale che rendeva ancora più scivoloso il tragitto.

Eliot stava morendo di freddo. Consapevole del fatto che se si fosse fermato sarebbe morto per davvero, aveva raccolto in sé le ultime forze rimaste, agendo sul proprio corpo con una volontà che non immaginava di avere ma che gli impediva di lasciarsi andare, come sicuramente avrebbe voluto, fermando la clessidra del tempo in un momento preciso: quel preciso momento!

La bruma velava quel progetto di luce che, indebolito da nuvole basse, sembrava appartenere ancora alle ore che anticipavano la nascita del Sole. Durante l’inverno i suoni della foresta parevano svuotati di ogni presenza di vita; solo il fruscio silenzioso della pioggia, filtrata dai rami e dalle foglie delle conifere, ed il rumore delle scarpe sfondate che creavano nel fango altre pozze di melma, facevano sentire l’uomo non completamente solo.

Eliot alzò lo sguardo al cielo, maledicendo quella pioggia, quel freddo insopportabile e quella dannata fame che lo stava spossando. Vide in lontananza, dove il percorso disegnava un’ampia curva in salita, un riparo nella parete di calcare che fiancheggiava il sentiero. Raggiunta la fiancata della montagna si introdusse nella piccola zona asciutta sperando di non incontrare altre creature, cadendo in un sonno pesantissimo.

Qualche ora più tardi fu svegliato da un senso di calore sul collo che gli fece andare il cuore in gola, un cane di media taglia lo stava letteralmente leccando e guardando con aria stupita.

Forse l’animale si era incuriosito per quella complessa collezione di afrori che provenivano dall’uomo, oppure, più probabilmente,  dall’odore del pane secco che Eliot aveva posto nella sua bisaccia, nascondendolo tra i ferri del proprio lavoro di scalpellino. Il cane lo guardò toccandogli il collo con la punta del naso, quindi sembrò indicargli la bisaccia con il suo gustoso contenuto.

Il giovane uomo, indifferente alle reali necessità della bestiola, gli mise la mano sulla testa grattandogliela per qualche minuto, poi si alzò, preceduto dall’animale che si era incamminato lungo il sentiero nella direzione che stava percorrendo anche lui.

Eliot non amava particolarmente i cani, ma in quel caso comprese che forse quell’animale gli era stato mandato dal destino per aiutarlo a uscire da quella complicata situazione.

Era partito dieci giorni prima da Piacenza lungo sentieri e viali poco frequentati, allungando di molto il tragitto per poter raggiungere il mare nei pressi di Genova. La sua meta finale sarebbe stata la Sacra di San Michele, in Piemonte. Eliot faceva lo scalpellino di mestiere e apparteneva ad una antica scuola di maestri provenienti dalla zona di Como. Aveva lavorato con un grande costruttore, Wiligelmo, un Maestro fatto e finito che aveva costruito numerosi edifici sacri, ricoprendo con preziose opere d’arte le pareti esterne e gli interni delle chiese. Grandi sculture dalla forma umana, mostri di fantasia e volti diabolici decoravano i capitelli delle colonne gotiche, rendendo i luoghi sacri ancora più tetri di quello che potevano apparire a prima vista.

In realtà lo scopo era proprio quello di spaventare i fedeli, rappresentando il male e le mostruosità del mondo invisibile affinché trovassero rifugio nelle chiese, lontano dai pericoli di un mondo terrificante, accolti dall’unica realtà possibile che potesse dar loro conforto.

Il peccato era ovunque, il male invadeva gli spazi fisici senza alcuna pietà: violenza, malattie, povertà, ingiustizie sociali e ogni genere di nefandezze, consumate nelle case o nei luoghi pubblici, erano i protagonisti di ogni storia e di ogni realtà.

I volti diabolici che pendevano dai capitelli, o che formavano i terminali delle grondaie, guardavano con smorfie di scherno i poveri fedeli, come per dire loro quanto fossero piccoli e indifesi, quanto fosse inutile la loro presenza sulla terra e quanto fossero da considerare solo carne da mandare al macello come soldataglia o servi senza speranza perduti negli immensi latifondi dei loro signori.

Se gli uomini contavano poco o nulla, le donne contavano ancora meno. Non dovevano parlare mai e se gli uomini avessero potuto avrebbero impedito loro anche di pensare. In realtà non avevano molte occasioni per parlare o per esprimere i propri pensieri, ma anche nel caso ne avessero avute, i loro uomini, prima i padri poi i mariti e poi anche i figli, avrebbero tolto loro ogni possibilità per dire una sola parola. Dovevano lavorare e figliare come animali, il resto era solo inutile e dannoso spreco di tempo.

Eliot seguiva il cane a rispettosa distanza, anche se sarebbe stato meglio dire che quest’ultimo lo precedeva mantenendo sempre una buona manciata di passi tra di loro. La sensazione dello scalpellino era quella di essere guidato da un cane che conosceva perfettamente la meta alla quale condurlo, senza farsene quasi accorgere. Un uomo, per quanto di nobile animo e di buoni principi, avrebbe fatto una certa fatica ad ammettere la necessità di farsi indicare la strada da un cane, per di più un animale che non conosceva e che avrebbe potuto anche condurlo nel pericolo o farlo perdere nel bosco, ma Eliot ebbe la sensazione che avrebbe potuto e dovuto fidarsi di quella bestia.

La pioggia autunnale cadeva ad intermittenza, disegnando nel cielo sipari spostati dal vento. Il cane si arruffava il pelo, scuotendosi regolarmente, esibendo quel gesto con una certa dose di vanità tutta umana. Dopo una buona mezz’ora Eliot intravide in lontananza una sorta di casolare nascosto dalle piante, una sorta di sagoma scura che si stagliava sullo sfondo più luminoso di un cielo ceruleo. Vide una colonna di fumo uscire da un lato del muro, dedusse che fosse abitato.

Il cane corse avanti, scodinzolando vistosamente, perdendosi tra la macchia. Si mise ad abbaiare e questo determinò l’apertura di una grande porta del casolare, che fece diffondere un’ampia lama di luce rossastra. Una figura piuttosto massiccia comparve in controluce, tenendo una lanterna in mano, nonostante la luce del giorno avesse iniziato a disperdere le tenebre, il cane entrò in casa sgusciandogli tra le gambe; la figura chiuse la porta ma da fuori si udiva perfettamente il latrato del cane che voleva segnalare la presenza di qualcuno. Dopo breve tempo la porta venne riaperta e la figura maschile che sorreggeva la lanterna venne a trovarsi di fronte al nostro scalpellino.

I loro occhi si incrociarono a lungo ma nessuno iniziò il benché minimo dialogo.

– Piota torna in drent!

Il cane, che ora aveva un nome si diresse in casa senza protestare.

– Te sé chi l’ha indicat il can Piota, che siete amici?

– Si mi sembra, ma è vostro quindi?

– Se! L’è na bestia chi viv cum mi da semper!  Ma viste ca pioven cur entra che te scaldi.

Eliot non se lo fece ripetere due volte, entrò e percepì un piacevolissimo calore proveniente da una stufa che doveva servire anche per cucinare; si tolse, quindi, il pastrano intriso di pioggia posandolo vicino al fuoco. Il padrone di casa gli allungò la mano, pronunciando il proprio nome:

– Vincens, tuti me chiaman così, che alora so che sarà anche il mio nome! Vivi qui da semper sono senza moglie che l’è morta da due ani de febre, e lavoro la mia tera e faccio le pulizie a casa del Mat.

– E chi sarebbe il Mat?

– Si, poi ti dico, e te chi se?

– Mi chiamo Eliot, vengo da Piacenza e mio padre si chiamava Solomon, siamo ebrei e veniamo dal nord, dal grande freddo.

– Ah un ebreo! Mah?!? Comunque mangi come noi no?

Eliot scoppiò a ridere e gli fece ben comprendere che avrebbe gradito anche un pezzo di pane con una crosta di formaggio. Vincent lo fece sedere al tavolo, aprì lo sportello di una sorta di madia piuttosto mal concia e prese una tazza tutta sbeccata che riempì di liquido rosso.

– So chè alè lo vin che fè lo Martino di quel cascinale che non so se l’ha vist prima che si viene di qua e fan cò de mangè. Poi te do una mela e due tocchi de formagi che sarebbe da mettere ne la polenta che non c’è. Poi te do una parte di fritata che mangi me dopo che torni da lavorà. Se vuoi c’è anche un po’ di salame, ma poco.

– Grazie ho poco di pagare ma qualcosa ti do, dopo che ho mangiato.

Vincent si sedette anch’egli a tavola; lo guardava mangiare con i gomiti sul tavolo e le grosse mani a tener su le guance. Lo guardava come si guarda una cosa mai vista prima, una cosa rara.

Gli riempì un paio di volte la scodella di vino e si pulì la bocca con i polsi come se avesse bevuto anche lui. Eliot dopo un po’ iniziò a riprendersi, quel vino e quel calore inaspettato lo avevano forse salvato dalla morte, tuttavia la sua tempra e il suo orgoglio di giovane artista gli permisero di mascherare molto bene l’evidente disagio. l’ospite guardò il cane Piota con gratitudine passandogli la mano sulla nuca.

– Allora chi è sto Matto che mi dicevi?

– El Mat l’è il Mat, ossia quello che vive sulla montagna che c’è lassù verso Ceva, dopo le colline di Altare.

– Ma perché te lo conosci?

– E lo chinosivu tuti, al’è Mat mica per niente!  E poi ci ho anche lavorato per lù, che qui vicino c’è una sua casa che si è disabitata ma che qualcuno ci andava di certe notti che non so chi l’è. Poi pensa che il Mat l’han vist di notte cercare i morti drent al cimiteri cul caret per fare la rubada di mort!  E poi se na va co sti morti anche un po’ marci a casa tra le muntagne verso Ceva per far cosa? Te lo sai? Io no!

Mentre parlava, Vincent, gesticolava liberamente, come un direttore d’orchestra che desideri rendere partecipi tutti gli strumenti. Si alzava con una bottiglia in mano, faceva una piroetta, posava la bottiglia sul tavolo, prendeva un pezzo di pane, lo lanciava in aria facendolo cadere regolarmente, lo raccoglieva da terra, poi si sedeva di nuovo. Eliot lo osservava con malcelata perplessità: in fondo si era scaldato e aveva risolto il problema del pranzo, problema non certo trascurabile: inoltre era sicuramente incuriosito dalla storiella del Matto.

La conversazione tra i due rischiava di essere piuttosto sterile: da un lato Vincent tentava di raccogliere informazioni personali sul suo ospite, dall’altro Eliot sembrava desideroso di conoscere qualcosa di più sui misteri di quella povera regione abbandonata tra gli Appennini.

Il vino offerto da Vincent sposò la sua stanchezza. Una sorta di torpore invase la mente di Eliot, facendolo entrare nella dimensione onirica dove i ricordi, fondendosi tra loro, si organizzavano in una ricapitolazione di eventi che utilizzavano immagini ed emozioni per raccontarsi.

Durante il sogno lucido riuscì a rivivere tutti i momenti più significativi del suo lungo viaggio, del suo lungo viaggio dell’Anima:

partito da Piacenza, aveva percorso strade improbabili, sentieri impervi, giungendo alle propaggini delle Alpi marittime per tuffarsi nella Macchia della verde Liguria; aveva percorso oltre centotrenta chilometri per giungere a Genova, attraversando zone pressoché deserte e spopolate. Aveva voluto allungare la strada per vedere quel mare di cui tanto si parlava.

Genova nel 1096 si era resa autonoma, svincolandosi dal Sacro Romano Impero in seguito al suo contributo alla prima Crociata, divenendo a tutti gli effetti un libero Comune. Il nome della città derivava da quello latino di “Genua”, che secondo certe fonti voleva dire ginocchio, per via della forma arcuata che presentava; più tardi il nome venne alterato in “Ianua”, dal latino Porta di Passaggio, poiché il protettore delle Porte era il dio Giano Bifronte. Quindi Genova, si considerava protetta da un dio che aveva uno sguardo rivolto alla montagna e l’altro al mare.

Quando Eliot vide per la prima volta quella linea azzurra che tagliava come una lama affilata il bordo basso del cielo ebbe un sussulto. Le nuvole invernali, più definite di quelle estive, dipingevano la volta che lo sovrastava correndo verso Est. Seduto su una roccia, in una zona con rara e bassa vegetazione, Eliot rimase ad osservare quella lenta migrazione di forme bianche cangianti che si fondevano continuamente proponendo sempre nuove possibili fisionomie. Come un bambino si lasciò invadere dalla bellezza: respirò a pieni polmoni quella fredda aria invernale, riempiendosi di luce e di benessere.

Lo sguardo era orientato verso la linea dell’orizzonte, il fuoco calibrato verso l’infinito. Se fosse mai possibile esprimere quello che provò in quella situazione si dovrebbe immaginare un sentimento di estasi completa, di “stupor”, di abbandono.

Nella sua mente, abituata a cullarsi tanto nella bellezza delle forme classiche, quanto nell’orrore di quelle “seducenti mostruosità” che egli stesso aveva imparato a scolpire, si cristallizzarono forme-pensiero di natura sicuramente magica che diedero alle nuvole forme diverse da quelle reali, come modellate dai ferri del proprio mestiere.

La sua attenzione si posò su quella linea azzurra che definiva una zona nuova del mondo, che gli era ancora sconosciuta ma che sembrava attrarlo come un Amore “a prima vista”.

Eliot iniziò il tragitto lungo la discesa che lo avrebbe condotto verso la città, ascoltando il regolare tintinnio dei suoi ferri che rispondevano ai sussulti dell’impervio sentiero.

Lo scultore, a Piacenza, aveva conosciuto un altro grande artista della Scuola modenese, formatosi anch’egli con il suo primo Maestro Wiligelmo, il Maestro Niccolò. I due erano diventati subito amici, sebbene Eliot fosse più giovane di 15 anni.

Niccolò lo istruì con grande perizia, intuendo che nel giovane vi fosse quella innata presenza di un’Arte superiore, così rara e forse unica. Il Maestro era solito osservare i propri Apprendisti, cercando di correggerli fin dall’inizio, per togliere le cattive abitudini che, altrimenti, li avrebbero segnati per tutta la vita.

Lo scalpello doveva diventare il prolungamento del braccio sinistro, la mazzetta di quello destro. L’occhio andava sul pezzo e il colpo doveva essere solo sentito per lasciare lo sguardo sul punto di contatto con la pietra. L’artista era uno con la scultura, non era separato dal blocco, anzi doveva amare quel marmo o quel granito come se fosse la propria carne e soffrire quando la punta di ferro ne asportava piccole schegge.

“Sudore e sangue”, ripeteva Niccolò. Sudore, sangue e dolore erano componenti essenziali, come il rumore regolare del martello che doveva riprendere il ritmo del cuore, perche solo con il cuore si potevano ottenere risultati degni di riguardo.

Eliot raggiunse il mare di Genova, lo volle toccare perché non credeva ancora che fosse vero. Si lavò le mani sentendo il freddo pungente solo sui polsi, più sensibili delle dita ormai consumate dal lavoro.

Eliot si svegliò dal quell’insolito torpore, vinto da un crescente solletico provocato dal Piota che impassibile cercava qualche traccia di cibo dalla sua mano, leccandogli le dita che penzolavano inermi lungo il fianco della sedia.

Vincent, accortosi che l’ospite era semi addormentato, con una furbizia tutta sua cercava di raccogliere maggiori dettagli sulla vita, propinandogli sempre con maggior generosità rosse dosi di quel liquido che egli, con estremo coraggio, definiva vino.

– Ma te che fa lo scalpellino de le pietre, no?  Ecco come te fase a campare che mica tutti si fanno le chiese? 

Pronunciò questa arguta considerazione ridendo forte e palesando un’arcata dentale piuttosto intermittente.

– Mentre viaggio per le vie del mondo mi fermo nei borghi e cerco se qualcuno si deve rifare la tomba o aggiungere delle scritte…  Oppure riparo nelle case qualche angolo poco preciso o scrivo il nome del padrone sulla trave della porta d’entrata.

– Ma alora già ti g’ho trovat un lavuret per me, che così ti sdebiti del pranzo e del vino.

 Tirando l’ospite per un braccio Vincent lo accompagnò verso la cucina, che era poi al fondo dell’unico stanzone che costituiva il casolare.

 Ecco vedi questa pietra che tiene il buco del gancio da apendere le robe? Ecco sotto c’era un legno che si mettevano le cose e ora s’è sciapato da tempo e volevo metterci una pietra di punta che faceva lo stesso di prima, no?

– Si ho capito vedo cosa si può fare.

 Eliot infilò un dito nel buco per misurarne la forma e la larghezza, poi prese della mollica di pane, vi avvolse un rametto di alloro che aveva trovato sulla madia e fece una specie di stampo da mettere nel buco. Quando lo tolse, grazie al rametto che fungeva da manico, uscì ed estrasse dalla bisaccia una scaglia di marmo e dei piccoli ferri da rifinitura. Trascorse qualche minuto ad armeggiare sotto il tettuccio che proteggeva l’uscio dall’esterno e rientrò con il pezzo perfettamente lavorato.

Sotto gli occhi stupiti di Vincent, Eliot introdusse il nuovo tassello di marmo nel foro per verificare le misure, non dovette neppure rifinirlo poiché lo stampo aveva permesso la massima precisione del suo lavoro. Eliot fece un impasto usando la mollica dello stampo, un poco d’acqua, dei gusci d’uovo triturati fini, del fango e un poco di albume. Sotto lo sguardo sempre più perplesso di Vincent riempì il foro con il impasto, fino a farlo sbordare, quindi introdusse il tassello di marmo spingendolo prima con forza e poi assestandogli qualche colpo di martello, dopo aver protetto il marmo con una scheggia di frassino.

Il lavoro risultò essere perfetto, un tassello di marmo di Carrara sporgeva dal filo del muro per almeno quattro dita, una piccola scanalatura permetteva agli oggetti che vi avrebbero appeso di non scivolare in avanti. L’impasto in eccesso al contatto dell’aria iniziò ad indurirsi, mentre lo scultore raschiava con una punta fine quello che sbordava dal foro.

– Ora lasciamolo seccare il giusto che diventa più duro del cemento, poi domani potrai attaccarci anche il Piota.

La giornata scivolò senza grandi incertezze. La pioggia aveva ridotto la sua intensità smettendo di tamburellare sulle tavole che fornivano riparo ai conigli sistemati in un ricovero posto a fianco del muro di casa.

Vincent era seduto vicino alla stufa con un falcetto cui faceva il filo, il Piota dormiva ai suoi piedi tenendo una coda di coniglio tra le zampe ed Eliot era assorto di fronte ad un blocchetto di marmo tolto dalla bisaccia, nel quale forse intravvedeva una piccola figura da far riemergere dalla pietra.

Il tempo sembrava rallentare il proprio corso, nella casa vi era un silenzio pesante fatto di pensieri che non volevano svelarsi, immersi in un’intimità che sembrava proteggerli. Quei pensieri formati forse da ricordi o da desideri inespressi, galleggiavano pigramente nell’aria, sopra le loro teste, come se appartenessero ad un mondo sconosciuto, un mondo che li osservava senza interagire con le loro menti, come se fosse lontano, impalpabile, alieno.

Eliot era incuriosito dalla vicenda del Matto, non aveva raccolto altre informazioni su quel personaggio, ma si era fatto l’idea che si trattasse di uno di quei tanti misteri che si integravano nel contesto del luogo.

In quel lontano periodo storico la realtà era spesso sciolta nella leggenda, amalgamata nelle trame di convinzioni superstiziose credute vere da tutti.

Se tutti pensavano che un determinato evento fosse possibile, quell’evento diventava reale e concreto, senza che nessuno dubitasse o provasse a pensare il contrario. La magia era percepita come una grande presenza che abbracciava la Natura e gli uomini, le forze occulte interagivano nell’immaginario collettivo come Cause non meno vere di quelle fisiche. I fantasmi erano presenti, visti nel lampo di un temporale o nella nebbia del mattino, uditi nel grido di un corvo o nell’urlo di un topo catturato da una civetta. Demoni e spiriti di varia natura convivevano con gli uomini, abitanti di un mondo che aveva imparato a coesistere con il terrore della notte, nel buio delle proprie paure.

Vincent guardò Eliot immerso nei pensieri, osservò le sue mani giocare con il pezzo di marmo e lo sguardo perso nel vuoto.

– Alora te raconto del Mat, che se no poi dice che ciò i segreti:

– Tanto tempo fa, che non mi ricordi neanche bene, mio padre mi disse che nel bosco di sopra aveva vist uno che ciaveva un morto su la schiena, Cioè diceva che uno, che saria poi il Mat, se portava un altro, che non si sa, morto su la schiena. Poi mi dice che se lo guardava senza che lo vedeva e che poi sto Mat prende una pala e fa un buco in tera. Ma ci sepelisce solo il corpo, che la testa la toglie con una specie di lama di fero che aveva dietro. Chiude il buco e ci mette la terra di sopra, poi porta la testa dentro la casa. Mio padre dice che sera preso la paura, poi a nostra casa non sapeva se dirlo o tasere come se aveva un segreto, no? Allora non dice niente a mia madre e me e il giorno dopo va a vedere da vicino se c’era ancora quel Mat. Ma io che capivo poco ma qualcosa, lo avia seguito e quando vedo che si mete soto la finestra e poi si alza per vederci dentro capisco che ci sarebbe di strano e mi nascondo.

Intanto, visto che il Mat non era lì, entra da la porta e cosa vede?

Bene vede la testa sul tavolo che era tutto col sangue secco. Poi corre di fuori e scappa verso di me che non mi vede da dietro una pianta e va a casa. Io che non sapevo cosa che aveva guardato vado a vedere da la finestra che capivo meglio che dentro casa e nel mezzo buio vedo sta testa e mi faccio paura.

Alora sento un rumore e sto ben fermo di fuori ma nascosto. Vedi che entra uno alto e non ci vedo la facia, ma entra e anvisca una candela grossa. Poi prende la testa che ora di dietro la finestra vedevo meglio e ci mette sopra una specie di roba scura come pece, di quella che c’era nella palude a grumi e che puzza le mani. Poi prende la testa e ci mette un palo di legno da soto che entra e va dentro tanto, e pogia sul tavolo sto fatto.

Eco, ora anche te sai chi l’è sto Mat!

Eliot aveva ascoltato in silenzio quella macabra vicenda, cercando di cogliere nella narrazione una spiegazione che fosse meno irragionevole di come potesse apparire.

 E poi sei tornato in quella casa?

– si ma tanto dopo e poi sucede una cosa che fa anche di più strano:

torno, fai dopo un mese, vedo che non c’è anima e guardo bene dentro e vedo il tavolo con dei vetri e bichieri e roba di taze piene di qualcosa. Alora entro da la porta e ti vedo come un tavolo pieno, pieno di erbe seche messe sopra e poi un vetro pieno di qualcosa gialla e un forno ma spento. La testa non ci era più ma al posto una specie di crapa de omo con la pelle nera come carbone. Mi son preso la paura e son scapato e quando che sto di fori una mano grosa mi schiacia la spala  e mi ferma bene: “Chi se?”,  Mi dice  “che ci fai dentro la mia casa?” che non ci aveva torto, però faceva anche male. Poi mi da una sberla che cado e mi dice: “se non vuoi che ti mazzo ora mi pulisci la casa e se torno che è sporca ti taglio la gola”. Così ho fatto che ho spazato e lavato col vasco di legno e la scopa meglio che mia madre a casa mia.

Poi lù torna e mi dice: “bravo che ti do tre mele e se torni a pulire poi ti lascio qualcosa di mangiare, ma solo di giorno, che qui di notte non si viene mai! E alora io ci vado per qualche tempo e poi lui non torna e io non vado più. Ora sono almeno cinque inverni che non vado perché non c’è nessuno e che ci vado a fare’

Il racconto di Vincent fece riemergere dal passato una storia impressionante, dai colori lividi e dal significato impenetrabile.

Tuttavia le domande di Eliot riguardavano i dettagli della sua descrizione, come se per lo scalpellino la vicenda narrata fosse quasi normale, come se quella situazione grottesca non fosse altro che un corollario di quel mondo raccapricciante che egli stesso scolpiva sui portali e negli interni delle chiese.

Eliot riuscì a crearsi un’immagine perfetta e dettagliata di quell’ambiente, riuscendo forse a percepirne anche gli odori che emergevano dai botticini pieni di liquidi sconosciuti. Un grande tavolo di legno scuro con piccoli strumenti da alchimista, erbe e alambicchi, un braciere, tanti tesori della terra come rocce colorate e gusci di animali, oltre a scheletri e pelli seccate appese ai muri, questa era la miglior descrizione che si potesse ricavare dal racconto di Vincent. Tuttavia mancava un elemento fondamentale: vicino alla testa mummificata, che ora occupava una posizione centrale sul tavolo, era presente una piccola formella di argilla che presentava molti simboli geometrici.

Eliot aveva introiettato ogni dettaglio della descrizione fatta da Vincent: avrebbe potuto entrare in quella casa ad occhi chiusi ed essere sicuro di ritrovare ogni cosa nel luogo esatto indicatogli dal suo ospite.

Sebbene Vincent fosse un poveraccio semi analfabeta, incapace di leggere e di scrivere, i suoi racconti sembravano emergere da un tipo differente d’intelligenza, sembrava che una mente più aperta e analitica fosse in grado di ricordare particolari così precisi e coerenti, collegati da un filo invisibile che li poneva in logica relazione.

Lo scalpellino si fece spiegare bene dove fosse la casa del Matto, ora aveva intenzione di visitarla.

Eliot aveva compiuto studi molto semplici, basilari, ma nella scuola di scultura di Wiligelmo chi prendeva il grado di Compagno d’Arte doveva impegnarsi nella tecnica del conteggio. Doveva imparare le formule che regolano le proporzioni, e gli equilibri delle forme, più tardi quelle stesse intuizioni sarebbero state fonte d’ispirazione a Fra Luca Pacioli, il padre della Sezione Aurea.

Il giovane artista aveva ben compreso che in quella casa si doveva nascondere qualcosa di importante, di grave, di segreto.

Non poteva però immaginare che vicino al teschio fosse appoggiata una piccola stele con uno scritto della massima importanza, fatto di segni e simboli, noti solo a qualche Dottore della Chiesa o a qualche Filosofo innamorato delle antiche tradizioni.

Congedandolo Vincent provò un senso di affetto dovuto alla gratitudine per avergli alleviato il disagio di una completa solitudine, resa meno dolorosa unicamente dalla presenza del Piota. Inoltre la compagnia dell’artista gli aveva fatto emergere ricordi passati, fantasmi di un tempo lontano in cui albergavano ancora pensieri piacevoli.

Il soggiorno di Eliot durò una decina di giorni. In quel breve lasso di tempo nacque tra i due uomini un senso di profonda amicizia. Lo scalpellino aveva reso molti servigi a Vincent: la sua abilità manuale si era espressa in tanti piccoli lavoretti con i quali aveva ampiamente ripagato l’ospitalità ricevuta.

Una mattina di fine Novembre Eliot uscì per riprendere il cammino verso la Sacra di San Michele. Vincent gli indicò la direzione in cui avrebbe potuto trovare la casa del Matto, ben sapendo che la sua curiosità gli avrebbe impedito di abbandonare la zona senza visitare quel luogo misterioso. Il cane Piota si offrì di accompagnare Eliot per qualche tratto, muovendosi proprio verso quella casa, come se avesse ricevuto un preciso comando. Dopo tre ore di cammino lungo un sentiero reso ancora umido e scivoloso dalle recenti piogge, intravide dietro la sagoma del cane una costruzione che si stagliava in controluce. Ebbe una strana impressione, quasi una premonizione che sembrava volergli suggerire che stava entrando in un luogo sacro. Una sorta di area popolata da creature aliene, forse proprio dalle anime di quelle stesse forme che egli soleva scolpire sui capitelli delle colonne.

Il Piota si fermò di colpo come se avesse trovato di fronte a se un ostacolo invalicabile. In realtà Eliot non vide nulla di strano, fece alcuni passi quindi chiamò il cane senza ottenere alcuna reazione. Il Piota senza alcun apparente motivo abbaiò un paio di volte a voce alta, come per salutarlo, si girò e tornò rapidamente sui propri passi in direzione di casa.

Questo comportamento stupì Eliot, ma non lo distolse dal desiderio di conoscere a fondo la realtà dai tratti un po’ inquietanti di quel luogo. In quella particolare situazione sembrava che i suoi sensi si fossero affinati. Gli parve di udire il canto degli uccelli che in quella stagione sono un fenomeno piuttosto raro, così come percepì una temperatura più alta non giustificata dall’assenza di raggi solari. Sebbene il Sole non fosse ancora visibile, nascosto da una bruma molto fitta sempre presente nelle prime ore che seguivano l’alba, un misterioso tepore sembrava accarezzare le parti esposte del suo corpo, in particolare il viso più sensibile delle mani e protetto da una barba sommariamente curata.

Eliot si avvicinò a piccoli passi all’abitazione, riconoscendo tutti i particolari degli esterni che Vincent gli aveva descritto. Si avvicinò alla finestra, l’unica di tutta la casa, e scostò un poco le tavole che fungevano da imposte. Percepì un odore molto famigliare di cera e fumo, mescolati a essenze di erbe bruciate.

Assicuratosi che la casa non fosse abitata, almeno in quel momento, si avvicinò alla porta d’ingresso e la forzò con la semplice pressione della mano. Entrato la richiuse dietro le spalle. Aprì meglio le ante per dare luce e vide esattamente quello che Vincent gli aveva descritto. Erano passati cinque  anni dall’ultima volta che il suo amico vi aveva messo piede, tuttavia l’ambiente sembrava pulito e sistemato come nella descrizione che gli aveva fornito. Sul tavolo gli oggetti erano disposti con ordine e logica: il cranio quasi al centro con intorno tre candele sistemate a triangolo, un contenitore d’acqua vicino ad uno spigolo, un vasetto vuoto e tappato, una moneta e un cero di grandi dimensioni occupavano gli altri tre angoli del tavolo.

L’attenzione di Eliot fu catturata da un frammento di pelle che sembrava ricoprire e nascondere un oggetto. Sollevata la pelle vide una formella quadrata. Quando l’ebbe tra le mani sentì una sensazione di piacevolezza, non avvertì alcun odore particolare e giunto vicino alla finestra si mise ad osservarla con attenzione. Sul reperto era disegnato un quadrato suddiviso in 36 piccoli riquadri, anzi nella parte centrale vi era un quadrato più grande che ne conteneva quattro con una Luna disegnata al centro. Quindi in totale vi erano 32 quadrati piccoli e uno più grande, per un totale di 33. Intorno al quadrato erano presenti due serpenti che si toccavano le bocche e le code, quindi differenti dalla nota simbologia del serpente Uroboro che si morde la coda formando un cerchio.

All’interno dei quadrati erano disegnate forme regolari, geometriche, che assomigliavano più a decori che a simboli esoterici.

La stanza sembrava essere popolata da occulte presenze, gli oggetti posti sul tavolo apparvero agli occhi di Eliot come in possesso di una qualche propria vitalità.

Un rumore improvviso lo fece sussultare. Sembrava provenire da un angolo buio della sala, dove un basso muro separava l’ambiente creando due zone comunicanti ma indipendenti.

Eliot pensò subito ad un animale, forse un topo. Il rumore, una sorta di fruscio, si ripeté alcune volte, mentre Eliot, sensibilmente preoccupato si avvicinò munito di mazzetta. Al buio, nell’angolo più distante dalla finestra vide una figura di donna legata con una catena ad un gancio piantato nel muro, aveva lo sguardo perso e un polso legato dietro la schiena, accovacciata in terra sembrava un animale ferito. Alla vista di Eliot fece un balzo contro la parete che aveva alle spalle, emise un urlo digrignando i denti e coprendosi il viso con l’altra mano.

Dall’angolo in cui giaceva la donna proveniva un odore disgustoso, facilmente spiegabile con lo stato di indigenza nel quale la poveretta era costretta a vivere.

Eliot non aveva il coraggio di intervenire per cercare di liberarla: ogni volta che si avvicinava, quello strano essere gli si avventava contro tendendo la catena, che a sua volta l’assicurava alla parete. Quella creatura dalle sembianze umane sputava e digrignava i denti come un essere diabolico, urlava con grida strazianti facendo recedere Eliot da qualsiasi proposito caritatevole.

Lo scalpellino prese una candela dal tavolo e l’avvicinò allo stoppino di un grosso cero acceso. Quando illuminò la creatura si accorse che questa era nuda, immersa nella proprie deiezioni, il corpo pieno di piaghe aveva un aspetto orrendo. Non si poteva neppure ipotizzare un’età, aveva lunghe cicatrici sul volto, gli occhi fuori dalle orbite e non possedeva nulla di umano. Le mammelle pendevano sul petto, coperte dai lunghi capelli biondi, mentre il resto del corpo era rannicchiato in posizione fetale con le braccia che si chiudevano sulle ginocchia. Lo sguardo esprimeva puro terrore, ma una quantità ancora maggiore di sgomento sembrava invadere l’animo di Eliot.

Un forte rumore fece sussultare lo scalpellino, distogliendolo da quella macabra visione. Il fragore proveniva dalle sue spalle, Eliot non fece tempo a girarsi che percepì il peso di una grossa mano sulla spalla che gli impediva qualsiasi movimento.

– Stai fermo che se fai un solo movimento ti spezzo il collo! Perché sei entrato a casa mia?

– Non lo so io credevo…

– Credevi cosa? Sono due ore che ti osservo e che ti seguo, non avresti dovuto entrare, non sai in che guaio ti sei cacciato! Hai visto cose che non dovevi proprio vedere, che nessuno doveva vedere! Perché sei qui?

Pronunciando quelle parole la figura lo spinse contro la parete tenendogli una mano forte come una tenaglia intorno alla gola. 

– Ora che hai visto quello che non dovevi vedere scegli o mi aiuti o ti faccio uscire gli occhi dal cranio!

Eliot fece un cenno di assenso, senza avere la forza di pronunciare una sola parola.

– Bene allora visto che ci siamo capiti prendi questa leva e vai a scioglierla dalle catene.

La donna, o quella che poteva sembrargli tale, si mise a quattro zampe come una bestiola e attese di essere slegata. Eliot armeggiò con il pezzo di ferro che gli aveva dato, introducendolo in un blocco di metallo che assicurava con una molla in tensione la catena al muro. La sua funzione era simile a quella di un lucchetto, sebbene fosse molto più semplice e rudimentale.

Liberata la creatura l’individuo la fece ripulire da Eliot con uno straccio bagnato, l’operazione portò via un certo tempo.

Mentre lo scalpellino eseguiva gli ordini, l’uomo liberò la parte centrale del tavolo spostando il cranio con le tre candele e posando la stele incisa su una piccola mensola situata sotto la finestra. Con gesti lenti e calcolati ordinò tutti gli altri oggetti sui lati lunghi del tavolo, accese delle erbe entro ciotole di terracotta, posizionò con cura i simboli degli Elementi ai quattro angoli. Mentre avveniva la preparazione rituale di quello che poteva essere un arcano luogo di magia, Eliot, finito di pulire la donna, iniziò ad asciugarla.

Terminate le operazioni di pulizia Eliot osservò il corpo nudo di quello strano essere: il viso magro ricordava quello di un cadavere, le unghie lunghe e sporche si presentavano ricurve e spezzate in più punti. La donna venne fatta sdraiare di schiena sul tavolo, le mani e le caviglie le furono legate a quattro anelli presenti sugli angoli. Con un pezzo di carbone l’uomo disegnò un cerchio magico intorno al corpo della donna pronunciando a bassa voce una sorta di litania.

Eliot dovette sedersi vicino al tavolo tenendo due candele accese nelle mani per illuminare meglio la scena e forse per essere più facilmente controllabile. L’ambiente stava assumendo tinte piuttosto inquietanti.

Il Mago, così Eliot iniziò a riconoscere quello strano figuro, prese in mano la stele di pietra e pronunciò alcune parole che evidentemente provenivano dalla lettura della stele stessa. Con la destra, rimasta al momento libera, fece roteare nell’aria un porta incenso, disperdendo grandi quantità di fumo nell’ambiente. La donna rimase immobile, come in catalessi, Eliot era anch’egli fermo, impietrito e in silenzio.

Il Mago disegnava nell’aria cerchi sempre più ampi girando intorno al corpo inerme della creatura. La donna sussultò più volte, inarcando la schiena e ponendo in tensione i legacci che la tenevano ferma al tavolo. Qualche istante dopo le convulsioni aumentarono, cercando di divincolarsi mosse la testa in tutte le direzioni emettendo dalla bocca una schiuma bianca e ripugnante. Fece, quindi, uno scatto verso l’alto, si calmò ed iniziò a parlare:

– Maledetti voi che mi giacete di sopra sto tavolo e che mi fe patire la fame e la sete io devo nutrire sto corpo vuoto, io lo nutro col male e lo respiro col dolore del campo dei morti, solo perché voi maledetti non fate gnente per riempirolo. Cosa mi vuoi che ti dico, ora? Cosa vuoi ancora di sapere?

 – Quello che voglio sapere da te creatura schifosa del mondo dei dannati lo sai!  Non fare il furbo con me che ora hai un corpo per vivere e parlare puoi solo dire grazie al tuo padrone. E sai che se solo lo voglio ti sbatto nel mondo schifoso da dove ti ho preso e ti faccio marcire in eterno, come dovresti!

Sono mesi che ti chiedo di conoscere il secreto della Terra di Mezzo e finché non me lo dici ti torturo sto corpo vuoto che è la tua casa di demonio e ti faccio patire tutto il dolore che patiresti se fosse davvero il tuo! Ti ho trovato il corpo di questa miseranda che stava morta al cimitero, te l’ho portato perché ne potessi avere uno, ma tu niente, tu non parli, tu credi di essere più furbo con me.

Il Mago prese dell’olio lo versò sul ventre della donna e vi diede fuoco avvicinando la candela. Un urlo straziante invase la stanza, il corpo esanime della poveretta iniziò ad essere preda di convulsioni, finché emise un rantolo piegando la testa perdendo i sensi.

Il Mago posò i suoi arnesi vicino al tavolo, si diresse verso una ciotola e vi si immerse la faccia e le mani, quindi si asciugò con uno straccio dirigendosi verso Eliot.

 Ora forse hai capito qualcosa di più vero?

Pronunciò la domanda che non prevedeva risposta sorridendo ambiguamente, mentre Eliot, bianco come un cencio, non riusciva quasi a respirare.

– E non fare la vittima! Sei mica tu legato su quel tavolo, e non ho neppure intenzione di legarti ora, sempre che tu mi faccia capire che hai ben compreso quello che sta succedendo, qui e ora!

Il Mago ordinò ad Eliot di slegare la donna di pulirla e di riaccompagnarla nel suo angolo, dove una forte catena di ferro l’avrebbe assicurata nuovamente al muro.

La temperatura era decisamente bassa. Nessuna stufa era presente, solo un piccolo caminetto, con il quale stava armeggiando il Mago, avrebbe potuto donare un poco di calore.

La fiamma faticava e farsi strada tra i legni piuttosto umidi, il Mago la sollecitava con una paletta di legno che muoveva con energia.

Quando Eliot ebbe finito di svolgere le proprie incombenze il Mago lo invitò ad accomodarsi, manifestando una gentilezza piuttosto equivoca:

– Voglio sapere tutto di te, poi deciderò il da farsi. Come ti chiami, cosa fai perché sei entrato in casa mia e cosa stavi cercando. Cerca di rispondere con esattezza alle mie domande, cosa devo fare di te non lo so ancora ma dipenderà molto dalle tue risposte.

Eliot si sedette con le spalle al muro tenendo la testa bassa, infine prese coraggio:

– Mi chiamo Eliot, sono uno scalpellino e mi sto dirigendo in Savoia verso la Sacra di San Michele. Sono partito da Piacenza dove ho lavorato con Niccolò al Duomo.

– Pietro I vuole farsi perdonare le scaramucce avute coi Frati della Chiusa, assecondato dal vescovo Cuniberto?

– Non saprei è che vado a lavorare alla Chiusa per i restauri, così mi hanno ordinato.

– gente strana questi Savoia, comunque ho capito, sei solo uno stupido curioso che non sa farsi i fatti suoi!

– Ma quella poveretta perché la tenete legata?

– Vedi che non sai farti i fatti tuoi!  Cosa credi che io sia un pazzo? Un maniaco che tortura le donne indifese?

– No, no è che mi sembra che…

– Cosa vuoi capire tu che hai ancora il latte di tua madre in bocca e capisci solo quello che il tuo cervellino da muratore ti dice!

– Se tu sapessi cosa accade nel mondo di sotto… staresti zitto e impallidiresti di fronte alle atroci verità, che ovviamente neanche ti immagini!

Eliot aveva appreso la lezione: ovviamente si sentiva confuso, quasi stordito. Lo spettacolo macabro al quale aveva appena assistito gli aveva creato un comprensibile senso di fortissimo disagio, che sommato alla paura che incuteva il Mago, lo aveva portato ad una sorta di immobilità fisica e mentale. Avrebbe voluto forse fuggire, uscire da quella situazione impossibile, tuttavia un senso di fascino dovuto al carisma di quell’uomo forte e imponente che sembrava essere in grado di comandare le forze occulte, gli suggerì di aspettare e di osservare in silenzio le sue mosse.

Il Mago aveva ben compreso la situazione, riflettendo pensò anche che un assistente avrebbe potuto fargli comodo, e visto che non era così facile trovare manodopera a basso costo pensò di approfittarne.

 Non ti posso spiegare i dettagli perché non capiresti, ma voglio offrirti la possibilità di uscirne vivo!  Io per motivi miei sono spesso assente di giorno, ma di sera e di notte lavoro qui nel mio laboratorio. Quello che faccio mi sembra abbastanza chiaro, anche se penso che tu non abbia ancora capito niente. La ragazza che tengo legata in realtà era morta da poco tempo, morta di parto per essere più precisi. Il suo corpo sarebbe marcito sotto terra se io non avessi avuto la bontà di recuperarlo e di portarlo qui in laboratorio. Forse ti stupirai di vederla viva, anche se ti sembra tutto meno che una donna. Le forze che ci circondano hanno la necessità di vivere come noi umani e sono sempre alla ricerca di corpi da usare per sentirsi vivi.

Le parole del Mago suscitarono sgomento nel povero Eliot. Al giovane vennero in mente tutte le leggende legate alle possessioni diaboliche di cui si parlava in continuazione. Pensò alle persone che di colpo sembrarono impazzire senza motivo. Si ricordò della Elisa, una giovane donna di Piacenza che una mattina si presentò davanti al cantiere del Duomo chiedendo di vedere le nostre sculture, o meglio i bozzetti delle metope che avrebbero dovuto inserire nei capitelli: la donna si gettò sopra una di queste mimando un rapporto sessuale. La poveretta in preda ad una esaltazione furibonda si strofinò contro il viso di pietra del demone fino a ferirsi e a sanguinare copiosamente.

Eliot era terrorizzato dall’idea che simili fatti potessero accadere a chiunque e in qualunque momento, troppi racconti sembravano confermarlo. Non eravamo che a pochi anni dall’inizio di quel periodo infausto che vide la nascita, durante il Concilio di Verona del 1184 presieduto da Papa Lucio III, del Tribunale della Santa Inquisizione.

Il Mago, o meglio il Matto come lo chiamavano tutti, giocava coi morti, almeno questo era quello che si diceva in giro.

Tutti sapevano che rubava i cadaveri nei cimiteri per portarseli a casa nel suo laboratorio, cosa ne facesse dopo nessuno poteva immaginarlo e soprattutto nessuno voleva conoscere la verità.

Intorno all’anno mille l’idea del male era diventata parte integrante del tessuto sociale. Solamente la Chiesa era autorizzata, da se stessa, a combatterlo con tutte le forze a sua disposizione, spesso strumentalizzando le proprie azioni per fini tutt’altro che santi.

Il male incombeva ovunque, il sesso era il peccato più grave, la strada che poteva portare verso le manifestazioni demoniache, la donna il necessario Capro Espiatorio. Eva era stata condannata per il suo infame peccato, il povero Adamo la sua vittima. Quindi pochi si stupivano se ci fosse un così grande accanimento verso il genere femminile, quasi nessuno ne prendeva le difese.

Eliot aveva assistito a quella scena orrenda, il corpo della donna usato come se fosse quello di un animale, aveva sussultato sotto il dolore inferto dal Mago. Ora quest’ultimo asseriva che in realtà il corpo fosse di una morta, che quella disgraziata fosse tornata in vita solo per soddisfare le necessità di una qualche creatura degli inferi… la cosa non lo poteva sicuramente tranquillizzare.

 La verità a volte spaventa proprio perché è vera, le fantasie sono sempre edulcorate ed è possibile credere o non credere, la verità no! E’ lì ferma di fronte a noi e ci obbliga a vedere anche ciò che non vorremmo. La gente, la gente… che parola insulsa e stupida per definire la massa di beoti, ignavi che parla, respira, mangia beve e caca e per far dispetto alle poche persone intelligenti si riproduce pure! … Già la gente asserisce, afferma, deduce e conclude con qualche giudizio, argomentando su temi che non conosce neppure vagamente. La gente sentenzia e giudica, condanna e se potesse ucciderebbe pure senza sapere mai nulla, fidandosi solo di una becera intelligenza animale.

Il Mago viveva da molti anni isolato e fuori da ogni contesto civile. Alla periferia del Marchesato di Ceva, centro politico del Marchesato Aleramico, possedeva una vecchia fortificazione le cui fondamenta poggiavano su antiche mura romane. Aveva ereditato la costruzione in pietra dai suoi antenati, che da quattro generazioni abitavano quelle zone ricche di pascoli e coltivazioni.

Guglielmo Rebaudengo era il vero nome del Mago.

Originari del Monregalese i suoi antenati si erano insediati presso Ceva nel XI secolo. Dopo alterne vicende dovute a poco felici scelte politiche la famiglia era caduta in disgrazia, avevano perso i fondi siti nella Langa cebana ed alcuni edifici furono sequestrati o abbattuti da Anselmo, figlio di Bonifacio del Vasto, che volle punirli per un presunto tradimento che non venne mai accertato definitivamente.

Guglielmo si trovò a sopravvivere da solo nella casa di famiglia, in compagnia di una vecchia cuoca che accettò di restargli accanto senza pretendere alcuno stipendio. Il giovane Guglielmo intraprese fin da ragazzo studi sistematici di Magia Cerimoniale. Educato da un vecchio notabile del luogo che possedeva una rara collezione di antichi documenti, si appassionò alla lettura di quelle pergamene che cercava di decifrare con l’ausilio del suo precettore.

I fogli ingialliti sembravano riservare segreti nascosti tra gli infiniti segni geometrici e i miteriosi caratteri rubati a qualche alfabeto sconosciuto. Il vecchio notabile conosceva il metodo per decifrare quei parenti dei più antichi geroglifici e con grande  perizia, negli anni, scoprì i primi rudimenti di quella che divenne secoli dopo l’autentica Arte evocativa.

Eliot rimase immobile ed in silenzio per un lungo tempo, mentre il Mago continuava a sfogliare un vecchio volume infarcito di manoscritti ingialliti dal tempo.

– Se tu sapessi cosa si può nascondere nei segni e nei simboli ti stupiresti più di quanto ti sia stupito oggi a vedere ciò che hai visto!  Possibile che tu sia così poco intelligente da non riuscire neppure ad intuire qualcosa di vero in tutto quello che è successo oggi?  Sembri un rimbambito, uno di quelli che vivono la fuori elemosinando qualsiasi cosa comi i cani del mio castello.

– Non credo di essere uno stupido, credo solo di aver visto cose che non appartengono al mondo conosciuto, come se di colpo i visi delle mie sculture prendessero vita e iniziassero a parlare tra loro…

– Beh forse non sarebbe impossibile neppure questo, ora vai a dormire, prima se vuoi c’è della minestra nel tegame vicino al fuoco, forse ne avrai bisogno!

La mattina si presentò con un vestito di Sole. All’esterno l’aria era fredda e secca, mentre l’atmosfera della stanza non sembrava rispecchiare la limpidezza del cielo. Eliot aveva cercato di dormire sopra un materasso di foglie secche che scricchiolava ad ogni respiro. Piccoli frammenti legnosi uscivano dalla tela piena di buchi e si infilavano tra i suoi abiti, rendendo il sonno ancora meno confortevole.

Guglielmo, già in piedi da un paio d’ore stava armeggiando con alcuni fogli di pergamena, sui quali erano riportate antiche formule rituali.

Si rivolse ad Eliot con un sorriso appena abbozzato:

– E così ti sei svegliato, ho temuto per la tua vita… avessi visto che colore avevi ieri sera…

– Non trovo che sia così comune vedere quello che ho visto, io.

– Sai non farla tanto lunga, non abbiamo ucciso proprio nessuno, solo la gentina del luogo parla di me come di un pazzo criminale, lo sai che mi chiamano il Matto, vero? E sai quanto me ne frega a me?, Lo sai vero?, Bene non me ne frega proprio una belina di niente!  Ho solo trovato il modo per donare un corpo a chi non l’ha mai avuto senza toglierlo a nessun vivente. Come possono accusarmi per questo? Cosa credono che sia stato facile comunicare coi morti per ricevere tutte le formule e gli scongiuri più adatti?

Ora, visto che continui a guardarmi come un vero pazzo, ti mostro una cosetta divertente…

Eliot si alzò facendo segno di aspettare: uscì per andare velocemente alla ricerca di un luogo appartato, quindi tornò con una tazza d’acqua tra le mani, bevendo lentamente poi si sedette sul materasso in attesa di vedere quella “cosetta divertente”

Il Mago accese le tre candele poste sul tavolo disposte a triangolo equilatero, nel mezzo appoggiò una ciotola d’argilla piena di una sorta di sabbia rossa, quindi tolse da una gabbietta un grosso topo grigio tenendolo per la coda e con l’altra mano gli incise una vena del collo. La bestiola si dimenò senza troppa convinzione, tendendo le quattro zampe per alcuni secondi, poi spirò. Il sangue sgocciolando sulla sabbia la inzuppò creando un piccolo cratere al centro. Gettò il topo in una specie di contenitore di legno, evidentemente destinato ad accoglire l’immondizia, andando a cercare delle pietre bianche e della polvere gialla, già finemente macinata. Mise le pietre in un vaso di marmo, le frantumò con un pestello di metallo fino a ridurre anche quelle in una finissima polvere.

– Tu non ha capito niente vero?  Bene dopo aver messo il sangue di quel topo marcio sulla polvere di argilla, ho pestato il marmo puro che ora mescolerò con lo zolfo.

Quello che sto per fare è veramente straordinario, se non sarai così vile da scappare come un coniglio nascondendoti in qualche buco… vedrai cose mirabili…

Il Mago lavorò con grande cura il composto che ora stava assumendo una colorazione arancione chiaro, quindi vi aggiunse della polvere di carbone e posò il tutto sopra il tavolo in mezzo a tre candele accese.

In piedi, di fronte ad Eliot, tenendo in mano una pergamena, il Mago pronunciò alcuni strani suoni che sembravano appartenere e tutte le lingue e a nessuna, poi prese un cero più grande, lo accese, e fece colare un poco di cera sulla ciotola. Il calore della cera fece reagire quella strana poltiglia minerale, creando dei piccoli grumi tondeggianti che si rappresero rapidamente.

Eliot era rapito da quella reazione, si avvicinò cautamente al tavolo, e vide sprigionarsi dalla ciotola un denso fumo che puzzava di zolfo. Al centro sembrava bollire qualche liquido fangoso, denso e scuro che formava delle bolle spesse e lucide che si rompevano facendo schizzare il materiale bollente tutto intorno.

Il mago continuò a declamare una incomprensibile litania fino a quando, dall’ angolo buio dove si trovava la creatura dal corpo di donna, si udì una sorta di grido agghiacciante: un urlo stridulo di sofferenza e di dolore.

Una nube luminosa dai colori lividi e sporchi si materializzò in prossimità del corpo di quella creatura. Senza assumere alcuna forma precisa si spostò con movimento ameboide verso il centro della stanza dove si trovava il tavolo dell’esperimento. La nube ora appariva molto più sottile e rarefatta; pur mantenendo sempre il contatto con il corpo della donna emetteva propaggini a forma di dita dirette verso la ciotola.

Il materiale presente nella tazza venne risucchiato lentamente dalla nube, concentrandosi fino a formare una sorta di scultura aerea molto densa. La forma si era alimentata, ora i suoi colori erano più vivi e delineati, il Mago la osservava dal basso spostando continuamente le mani come per dirigerne i movimenti.

 Ora sei stupefatto? Sai cosa sta succedendo? O credi che siano tutte fantasie?  Il tuo silenzio è molto esplicito, ora ti spiego io: La forma larvale che ha preso vita abitando e rivitalizzando il cadavere della donna ora sta mutando il proprio corpo eterico: nutrendosi dei minerali che si trovano nel composto sta facendo un primo salto evolutivo, a cui dovrebbero seguirne altri due, il primo con l’apporto di vegetali, quindi di animali. Ne seguirà una quarta… ma ne parleremo in seguito…  Infatti essendo una forma che proviene dalla Dimensione che intendo frequentare quanto prima,  ho dovuto procurarle il cadavere ancora caldo di quella poveretta morta di parto per iniziare tutto il processo, ora potrà anche vivere senza quella forma umana che tanto ti ha scandalizzato. Per dartene una prova certa domani farai un bel buco in giardino e vi seppellirai la donna, che oramai non ci serve più nemmeno da morta.

Poi mi procurerai molte foglie particolari e prepareremo un delizioso intruglio per la nostra nuvoletta.

– Ma la vita è passata alla nuvola ora?

– Ma di quale vita stai parlando?  Non hai ancora capito che qui siamo oltre, oltre la vita, oltre la morte, oltre il bene e il male, oltre quello che credi di sapere e che non puoi neppure immaginare che esista…. Siamo dove nessuno è mai stato e dove molto presto andremo, se dimostrerai di esserne all’altezza.

Con una gestualità perfetta il Mago invitò garbatamente la nuvola a condensarsi nella ciotola, sembrava che la stesse massaggiando, che fosse in grado di accarezzare quella massa amorfa che avrebbe potuto assumere qualsiasi forma e qualsiasi colore. Con rapidità posò sulla ciotola un disco di vetro sul quale aveva cosparso resina di pino, e premendolo sul bordo vi sigillò la Nuvola all’interno.

Eliot non volle verbalizzare nulla ma osservando quella strana massa cambiare continuamente struttura e gradazione cromatica fu sedotto dall’idea che si trattasse di una nota figura mitologica descritta da Omero nell’Odissea.  Il mago la costrinse ad entrare completamente nella ciotola, vi pose un coperchio che legò con una corda e coprì il tutto con un telo di cotone scuro.

– Forse inizi a comprendere? Vedo i tuoi occhietti vispi brillare di nuova luce, vuoi dirmi quello che diavolo pensi o ti devo torturare per strapparti qualche parola prima di stritolarti la lingua?

– Credo che si tratti di un essere demoniaco, una creatura delle tenebre ma perché lo state nutrendo e curando?

– Cosa vuoi sapere tu di demoni e fantasmi… proprio come tutti quegli imbecilli che stanno la fuori! Ed io che mi ero quasi illuso…

– Ma se non è un demone perché deve vivere grazie a un corpo umano e alimentarsi con delle pietre tritate?

– Perché è una Creatura di un’altra Dimensione… semplice!

E’ una Creatura molto nota, un tempo adorata e venerata per le sue capacità predittive. Viveva nell’isola di Faro, vicino all’antico Egitto.

– Volete dire che si tratta di Proteo, il figlio di Teti e Oceano, di cui si parla nell’Odissea?

– Ma che bravo! Allora non sei una delle tante capre che brucano nei prati delle Langhe, hai studiato e anche bene, bravo, bravo…

– Quello che forse non sai è che i personaggi della Mitologia non sono solo di fantasia: lo sono diventati solo perché sono apparsi tanto tempo fa e poi scomparsi alla vista degli uomini… ma non scomparsi completamente. Hanno per così dire fatto un grande salto e sono entrati in una nuova Dimensione a noi preclusa, per ora, e possono ricomparire solo a determinate condizioni. Proteo, in particolare non ha mai avuto un buon carattere, e neppure io d’altronde, ma possedeva una grande e importante capacità: quella di predire il futuro facendo oracoli molto precisi e veritieri, quindi se ora sommi tutte queste informazioni… forse anche il tuo cervellino da scalpellino potrà arrivare a qualche deduzione, forse…

Lo sguardo di Eliot non esprimeva proprio una grande comprensione dei fatti esposti, piuttosto la certezza che si fosse infilato in un guaio dalle dimensioni colossali.

Sebbene il carattere del Mago apparisse sempre alquanto scontroso, dopo quello stravagante esperimento sembrò migliorare nettamente. Il suo rapporto con Eliot divenne più confidenziale, facendo emergere una inaspettata vena di apparente complicità. Il nostro povero scalpellino sentiva il peso della propria inadeguatezza: pur sforzandosi di comprendere qualcosa di quella folle situazione avvertiva da un lato il fascino indiscusso del mondo occulto e dall’altro la concreta preoccupazione che stesse intraprendendo un percorso maledettamente pericoloso.

Il Mago era sicuramente un individuo seducente: come una seducente prostituta lasciava intendere l’esistenza di Mondi Altri, ove si potevano palesare poteri sublimi, intimi piaceri e privatissime esperienze.

Eliot, spinto da una naturale curiosità attese che il Mago uscisse di casa per andare a controllare le condizioni del corpo esanime della ragazza. Quest’ultima giaceva senza vita nello stesso angolo della stanza ove prima si trovava incatenata, ovviamente non vi era più alcuna necessità di tenerla prigioniera, ma vedere quel corpo protagonista di incredibili vicende libero dai ferri non poteva certo tranquillizzare il giovane artigiano.

 Non ti avevo detto di seppellire quello schifoso cadavere? Urlò il Mago entrando all’improvviso.

– Muoviti! Invece di guardarlo con aria da beota scava una fossa nel bosco e buttalo dentro, che abbiamo ben altro da fare!

Eliot prese la pala che gli stava porgendo il Mago, si diresse fuori casa una ventina di metri oltre l’uscio ed iniziò a scavare. Il terreno era duro e roccioso, la pioggia dei giorni passati non aveva ammorbidito più di tanto quell’ argilla scivolosa che mescolata a piccole rocce rendeva lo scavo faticoso oltre misura.

Terminato il lavoro si diresse verso casa per recuperare il cadavere. Sotto lo sguardo vigile del Mago, Eliot, legò tra loro con uno straccio arrotolato entrambi i polsi della salma e la trascinò a fatica fuori casa. Giunto ad un paio di metri dalla fossa sentì tuonare una voce che gli intimava di arrestarsi:

– Fermati dove sei! Ora ti farò assistere ad un altro esperimento, poi mi dirai…

Proferite queste parole il Mago fece allontanare Eliot, sistemò tre candele intono al corpo della donna, accendendole con il fuoco del grande cero che bruciava ininterrottamente da tempo.

L’Operatore del Mondo occulto si riempì la bocca di un liquido giallo che aveva raccolto in un matraccio di vetro, fece una sorta di risciacquo muovendo unicamente i muscoli delle guance, quindi soffiò sul corpo inerme creando un cono di gocce polverizzate nell’aria.

Passati pochi secondi la donna iniziò a tremare convulsamente, mosse prima un braccio, poi una gamba. Alzò di poco la testa vomitando un liquido scuro e nauseabondo. Eliot era impietrito, pallido come il cadavere che stava osservando, vide gli occhi della donna uscire dalle orbite come spinti fuori da una forza malvagia presente nella sua testa. Una forza maligna aveva animato quei poveri resti umani come gli spiriti che agivano sul Golem, ma non vi era abbastanza energia per compiere lunghi passi, così il corpo della donna si sollevò da terra e barcollando si diresse verso la fossa, fino a cadervi dentro.

Il Mago fece segno a Eliot di coprire il corpo e di non fare domande.

Rientrati nell’abitazione avvertirono entrambi l’odore pungente delle deiezioni che insudiciavano il pavimento, Eliot si mise a pulire con vigore mentre il Mago si diresse verso il tavolo dove era appoggiata la ciotola che conteneva la Nuvola di materia eterica.

Ai lati del tavolo, sopra un rudimentale fornello, stava bollendo una poltiglia di natura vegetale, la densità sembrava simile a quella del fango ma il colore verde scuro, quasi nero denunciava un’origine biologica. I vapori che si sprigionavano dal matraccio di vetro defluivano entro una serpentina che presentava una debole pendenza, da qui il tubicino di vetro entrava in un contenitore pieno d’acqua che ne raffreddava l’esterno, facendo condensare il vapore che, trasformato in liquido, si dirigeva entro un altro matraccio posto più in basso.

Il Mago aveva raccolto molte piante durante la primavera e l’estate, osservando il momento più idoneo che corrispondeva sempre a quello dell’impollinazione. Aveva posto alcune di esse ad essiccare mentre altre erano state inserite entro stracci umidi affinchè non perdessero tutta l’acqua troppo rapidamente.

Erbe dalle foglie decisamente stravaganti, piccoli fiori e qualche radice costituivano una originalissima collezione di elementi vegetali che ora stavano per diventare i protagonisti della scena.

Il Mago si lavò accuratamente le mani entro un bacile di legno, le asciugò al calore del fuoco di un grande cero e si mise a scartabellare i fogli di pergamena dell’erbario: Avena sativa,  Populus nigra, Cedrus libani, Juniperus communis, Tamarix gallica, questi alcuni dei nomi delle piante che il Mago conservava gelosamente, sebbene le indicasse con altri termini a noi tuttora sconosciuti. Il vecchio alchimista conosceva centinaia di piante diverse, le distingueva con dei segni che redigeva ai lati della pergamena, in un punto facilmente visibile.

Raccolse una decina di specie differenti, le pose in un mortaio di marmo e con un pestello di spesso vetro le ridusse in poltiglia.

Eliot, terminato di compiere le pulizie, si era messo nuovamente a disposizione del Mago che lo incaricò di polverizzare altre piante. Con diligenza e forse un poco di rassegnazione lo scalpellino comprese che quella situazione grottesca che lo stava coinvolgendo così profondamente, aveva modificato il progetto della propria vita: erano, infatti, bastati pochi giorni, passati in casa del Mago, per fargli comprendere che quella interruzione del suo viaggio verso la Chiusa di San Michele poteva rivelarsi una buona occasione per conoscere aspetti nuovi e importanti della vita.

– Esci con me! Andiamo a vedere cosa sta succedendo la fuori!

Il Mago impartì quell’ordine perentorio poiché un rumore inquietante aveva attirato la sua attenzione: uscendo videro un denso vapore sprigionarsi dal tumulo di terra che custodiva la salma della povera donna, un odore acre si diffuse nell’aria, mentre un suono di sostanze in ebollizione sembrava provenire dalla medesima direzione. Coprendosi il naso con un ramo che stava per ridurre in polvere, Eliot, si avvicinò lentamente al luogo della sepoltura e fu sconcertato da una visione spaventosa: la terra che copriva il cadavere era impregnata d’acqua, forse dovuta alla presenza di qualche fonte sotterranea. Una sorta di fango putrido e maleodorante sembrava muoversi, animato da qualche causa incomprensibile.

All’improvviso le mani del Mago spinsero violentemente Eliot in avanti, facendolo cadere a faccia in giù su quel cumulo disgustoso.

Il poveretto si trovò con la bocca piena di terra, affondando nel fango che gli rallentava i movimenti. Sotto il corpo ebbe la sconcertante sensazione che vi fosse qualcosa che si stesse muovendo, sentì una forte pressione all’addome

che lo sollevò facendogli sprofondare la faccia e i piedi ancora più a fondo nella melma. Dimenandosi per non soffocare si aggrappò a qualcosa di viscido che reagì con un morso alla sua presa. Con l’altra mano, dibattendosi, afferrò una forma che gli sembrò essere consistente: facendo perno sull’oggetto, per non sprofondare di più si girò sulla schiena, respirando con la bocca ancora piena di fango. Il sapore disgustoso e l ’odore nauseabondo lo costrinse a vomitare. Il respiro gli produsse un dolore lancinante al petto; Eliot urlò disperato dimenandosi senza controllo. La mano che era stata morsicata ora si muoveva libera nell’aria, cercando di aggrapparsi a qualunque cosa. Trovò un pezzo di legno che afferrò con violenza, mise tutta la propria energia in quella stretta disperata, lasciandosi trascinare dalla forza che lo stava strappando alla morte. L’altra mano non aveva abbandonato la presa e quando Eliot emerse completamente dal fango si accorse di aver afferrato una caviglia del cadavere che si era staccata dal corpo, portando con se il piede sinistro.

Il Mago, che si trovava dall’altro capo del ramo, lo tirò fuori del tutto ridendo di gusto per quell’ignobile scherzo.

– Sei proprio uno stupido! A momenti ci lasci le penne, vedi a non prestare attenzione!

Eliot non replicò alle sue parole, si limitò a massaggiarsi la mano ferita dal morso e a lanciargli uno sguardo di odio furibondo che fece ridere sadicamente il vecchio Mago.

Il resto della giornata trascorse senza grandi sconvolgimenti. Il Mago terminò di preparare la pozione vegetale con le erbe che aveva scelto e preparato, mentre il povero Eliot dopo essersi ripulito ebbe il permesso di trascorrere il pomeriggio per conto proprio.

Dopo il tramonto calò un freddo pungente, l’aria della sera a causa della bassa temperatura scese verso il fondo valle portando con se una notevole umidità.

Nella stanza del Mago non vi erano che tre candele ed un grande cero a far un po’ di chiarore. Nessuno si era preoccupato di accendere il fuoco del piccolo camino, tutta la tensione emotiva era focalizzata su quel piccolo contenitore nel quale era stata imprigionata la Nuvola demoniaca.

Eliot era rientrato da poco, stava preparando una minestra di vegetali semi marci e qualche castagna secca che faceva bollire senza troppa convinzione.

Durante il pomeriggio, più per non perdere l’abitudine che per altro motivo, Eliot provò a scolpire una grossa pietra trovata nel bosco. Un pezzo di roccia calcarea, di un giallo sporco che conteneva qualche guscio di conchiglia. Il risultato di quel timido esperimento non gli parve molto convincente. Sembrava più una testa di feto abortito che il busto di una Metopa da inserire nel capitello di una colonna.

Forse stava perdendo un poco la mano, era passato molto tempo da quando nel cantiere di Wiligelmo aveva partecipato alla realizzazione della scritta, scolpita da Nicolao, sulla facciata del Duomo di Piacenza: Hoc opus intendat quisquis bonus exit et intrat. Quella specie di aborto che teneva tra le mani gli fece venire in mente il cadavere della donna morta di parto che aveva seppellito nel bosco.

Il vecchio Mago si accorse della presenza di Eliot. Quel giorno, dopo il deprecabile spintone che lo aveva fatto mezzo affogare nel fango, gli aveva dedicato la stessa attenzione che avrebbe dedicato ad un lombrico sepolto in qualche parte del suo orto. Guardò con commiserazione quell’improbabile manufatto che lo scalpellino stesso maneggiava senza convinzione:

– Hai passato il pomeriggio a scolpire quella schifezza? Se ti occupavi del caminetto era meglio, ora avremmo meno freddo!

– Perché mi avete gettato nel fango? In quel tumulo schifoso con la morta di sotto e i vermi e i serpenti e non so che belino d’altro? Voi siete un vecchio pazzo!

– Calma ragazzo, non esagerare che se non ti tiravo fuori io… Comunque un’altra volta fai più attenzione e non abbassare mai la guardia, tanto meno con me!

Il Mago parlò senza rivolgere un secondo sguardo ad Eliot: era completamente assorto nel suo esperimento che non sentì la necessità di esprimere altri commenti. Posò un recipiente di vetro più grande sul fornello, vi versò il contenuto in cui c’erano le erbe pestate e attese che giungesse ad ebollizione. Il distillato che aveva ricavato in precedenza, raccolto in un matraccio, appariva come un liquido chiarissimo e trasparente, lo aveva quindi posto in una bottiglia tappata, sigillata con resina di pino.

Il Mago tenendo in mano la ciotola con la materia eterica chiamò Eliot per farsi aiutare. Nel silenzio più totale, con una debolissima luce di candele, tenendo fermo il recipiente posto sul fornello vi avvicinò la ciotola che conteneva la Nuvola, sciolse la cordicella che teneva fermo il coperchio. Quindi la posizionò, capovolgendola sopra il contenitore, mettendo così in contatto le loro aperture sebbene quella della ciotola fosse sigillata dal disco di vetro incollato con la resina.

Dopo breve tempo la resina si sciolse al calore proveniente dal recipiente posto sul fornello: il Mago sfilò delicatamente il disco di vetro che serviva da tappo, mettendo così in relazione i due contenitori. Il vapore del recipiente inferiore salì lentamente introducendosi sinuosamente entro l’altro, I due sperimentatori assistettero ad un fenomeno straordinario: il sottile vapor d’acqua che salendo era entrato nella ciotola scese nuovamente nel recipiente di vetro posto in basso, portando con se, come afferrata in un amplesso, la Nuvola densa di materia eterica. Le due forme dialogarono assumendo configurazioni sempre diverse e colorazioni iridescenti. La Nuvola eterica introdusse una sorta di proboscide entro il miscuglio di erbe in ebollizione, inglobando tutto e andando ad aderire al bordo di vetro.

Lo spettacolo al quale i due stavano assistendo aveva qualcosa di straordinario: l’ambiente ovattato, semibuio, privo di rumori e piuttosto freddo appariva come una nobile cornice in grado di tutelare la sacralità dell’esperimento. Con gli occhi fissi sul contenitore in ebollizione, dimentichi di ogni altro dilemma, i due osservavano rapiti quel matrimonio di sostanze evanescenti e al tempo stesso piuttosto concrete. La Nube aveva lentamente inglobato quel fango disgustoso, cambiando di colore, e divenendo più pesante.

Quel corpo gassoso ora occupava il fondo del barattolo. Una scura forma globulare si muoveva come se qualche forza interna le donasse la vita, la Nuvola ora sembrava maggiormente densa, aveva perso la propria trasparenza e si delineavano delle venature interne che parevano delle arterie pulsanti.

I due sperimentatori stavano con gli occhi incollati al vetro del recipiente, dando l’impressione che quelle quattro pupille appartenessero ad un unico cranio. Immobili osservavano rapiti le lente evoluzioni di quella forma globosa che ora aveva risucchiato e forse digerito tutto il materiale vegetale in ebollizione.

Una poltiglia verde scuro posata sul fondo denunciava i resti della digestione della Nuvola, uno strato di escrementi simili ai resti della putrefazione vegetale occupava per un paio di centimetri il fondo del recipiente. Passati altri 20 minuti la forma globosa diede origine a sottili filamenti che sfruttando le correnti convettive si alzarono verso l’apice del bollitore, entrando nella zona opaca occupata dalla ciotola di terracotta. Dopodiché scivolarono verso il basso tornando a mescolarsi alla matrice che li aveva originati.

Il Mago si accorse dell’interesse di Eliot, la sua attenzione non sembrava scemare, anzi pareva quasi che quella stravagante attività che pareva tanto magica quanto scientifica lo stesse affascinando. Il Mago fissò la propria attenzione sull’attività dello scultore: in fondo, pensò, uno scultore non è che una sorta di piccolo dio che ambisce a creare qualcosa partendo da materiali  umili quali creta o pietra, ma anche nella migliore delle ipotesi non sarà mai in grado di creare la vita; inoltre, secondo la nostra religione, anche Dio usò dell’argilla per creare Adamo, ma la vita riuscì a donargliela.

L’esperimento che stavano conducendo avrebbe potuto condurli verso strade nuove e sconosciute. Partendo dal cadavere di una povera donna morta di parto, il Mago, riuscì a far convergere lo Spirito di un demone affinché lo risvegliasse trasformandolo in qualcosa di vivo, seppur per un tempo limitato.

Ora, grazie ad un esperimento più sofisticato, stava cercando di elaborare un modo nuovo per trasferire gli elementi vitali a quello stesso Spirito, affinché prendesse forma un corpo reale, a tutti gli effetti.

Eliot, rapito come in estasi, continuava a scoprire forme nuove che si creavano costantemente entro il recipiente, modificandosi e rinnovandosi secondo processi logici che puntavano al raggiungimento di una maggior perfezione.

Vide formarsi piccoli fili di fumo che si trasformarono in foglie filiformi; oppure globi molto delicati, appoggiati a steli che prendevano la forma di fiori sempre più complessi. In quel lento ribollio di sostanze vegetali si generavano continuamente forme che sembravano appartenere alle piante che il Mago aveva pestato nel mortaio prima di creare il contatto con la Nuvola.

– Lo so che non capisci cosa sta succedendo, mio giovane amico, ti voglio aiutare: aggiungendo lo Spirito del demone alla matrice di piante in ebollizione abbiamo creato l’unione tra gli elementi della materia con la componente metafisica in grado di organizzarle in tutte le forme che sono presenti nella matrice stessa.

Eliot lo guardò basito. Non solo non aveva capito assolutamente nulla ma stentava a credere che ci fosse qualcosa da comprendere.

– Ma voi avete messo a bollire piante marce e tritate, cosa c’entrano con le forme che vediamo ora di fiori e foglie e radici e…

– Tu non sei proprio tagliato per capire! Ma non vedi cosa abbiamo aggiunto? Non hai visto scendere la Nuvola che abbiamo fatto condensare dalle dimensioni infernali attraverso il corpo morto di quella donna? Come può esserti sfuggito questo particolare?  Lo Spirito-Nuvola ha la capacità di vedere e di organizzare tutte le forme presenti nella materia… se lo mettiamo in contatto con il minerale lui si condensa rendendosi visibile, a contatto con i frustoli vegetali prenderà tutte le forme che erano presenti quando le piante erano vive…

– E se lo mettessimo il contatto con pezzi di animali?

– Questa è la prima domanda sensata che hai fatto da quando ci conosciamo! La mia risposta è NON LO SO! 

Terminarono l’esperimento a tarda notte. Il Mago dopo aver dormito solo un paio d’ore si alzò dal pagliericcio formato da vari strati di foglie raccolte in un sacco logoro di tela, si vestì senza preoccuparsi troppo dell’abbigliamento e uscì a lavarsi il viso e poco altro.

Eliot, rimasto inchiodato dal sonno, non si accorse di alcun movimento. Solo più tardi avvertì uno strano solletico ad un alluce che lo fece sobbalzare. Quando vide il Piota che gli stava leccando il piede destro, ebbe un sussulto di stupore, lo accarezzò iniziando a chiedergli da dove fosse entrato. La porta socchiusa rispose per lui.

La casa era vuota, evidentemente il Mago si era allontanato per qualche motivo senza dire nulla. Eliot si vestì sommariamente e ancora più sommariamente si diede una rinfrescata con l’acqua presente nel tino posto fuori dalla porta d’ingresso.

Aver ritrovato quel vecchio cane lo fece sentire più a casa del solito, in fondo il suo breve soggiorno presso la baracca di Vincent era stato piacevole e, sebbene meno interessante, sicuramente più rilassante di quest’ultimo.

Il vecchio cane gli aveva portato una ventata di normalità, facendogli ricordare che le ultime recenti esperienze potevano solo appartenere ad un mondo folle e dannato, ben lontano da quello che aveva conosciuto fino ad allora.

Il Mago si stava comportando come un demiurgo, un dio minore alla disperata ricerca di verità nascoste nelle pieghe di una dimensione occulta e diabolica che si stava palesando nel più terribile dei modi. Il desiderio del suo nuovo Maestro era quello di ricreare la vita tramite la magia occulta. Le sue capacità medianiche gli avevano permesso di entrare in contatto con Entità aliene e diaboliche che, grazie a prodigiosi scongiuri, gli avevano manifestato i segreti per poter compiere degli autentici miracoli.

L’idea di base era quella che non fosse necessario creare un corpo di carne ed ossa per poi insufflarvi la vita, al contrario, partendo da una struttura spirituale, quale quella di un demone, fosse possibile metterla in contatto con delle sostanze chimiche o biologiche che avessero già posseduto delle forme quando erano in vita.

Fu così che il contatto con i minerali permise di rendere la parte spirituale più densa e concreta; con i vegetali scoprì che quella Nuvola di energia soprannaturale riuscìva a rappresentare delle forme che realmente appartenevano alle piante che aveva tritato nel composto. Ora doveva eseguire il terzo passo: il contatto con le forme viventi di animali.

Due ore più tardi il piota iniziò ad abbaiare dall’interno. Eliot che stava di fuori vide entrare il Mago che diede una sonora pedata al cane sbattendolo letteralmente fuori casa. Il vecchio aveva portato con se alcuni animali catturati con le trappole e non sopportando più di tanto quel vecchio cane che sovente andava a chiedergli del cibo lo trattò peggio del solito sbattendolo fuori casa.

– Eliot dove diavolo sei finito? Vuoi farmi diventare matto anche tu? Non mi bastano tutte le seccature di questo mondo?

Il giovane scalpellino rientrò in casa senza fiatare e sempre in silenzio iniziò a scuoiare uno scoiattolo, un passero un rospo e un pipistrello preso con la rete: gli animali che il Mago aveva catturato durante la sua battuta di caccia. Il Mago osservava il lavoro di Eliot con sguardo perplesso, mentre sceglieva da una mensola polverosa alcuni berattoli che contenevano animali di vario genere: pesci, polpi, lucertole e insetti, fatti seccare e completamente mummificati. Durante le operazioni di preparazione dell’esperimento l’ambiente divenne sensibilmente più tetro, l’aria più densa e pesante. Eliot sentì un brivido lungo la schiena ed ebbe la sensazione di udire un urlo lontano, una voce straziante e terrificante al tempo stesso.

Con un gesto improvviso il Mago gettò a terra il tavolo facendolo ribaltare su un lato. Tutto ciò che vi era sopra cadde in terra, le candele ancora accese si frantumarono sul pavimento, il fornello con la pietra sulla quale erano disegnati i simboli si ruppe in piccoli frammenti sparsi al suolo. Il Mago, comprese di aver agito d’istinto, in modo folle e irresponsabile, sconvolto da un’allucinazione che lo aveva indotto a commettere quel gesto inconsulto, come se fosse stato posseduto per un momento da una forza che lo stesse controllando. Ripresosi da quel momento di assenza guardò Eliot il piedi di fronte a se: il giovane era immobile con il barattolo dell’esperimento stretto in una mano, nell’altra teneva la parte superiore in terracotta. Con un movimento più rapido di un fulmine aveva salvato i due contenitori tenendoli uniti insieme come se non fosse accaduto nulla. Il mago rimase in silenzio, in cuor suo comprese che il gesto straordinario di Eliot aveva salvato il frutto di un lunghissimo lavoro, iniziato con il disseppellimento della giovane e proseguito attraverso lunghe, complesse e laboriosissime fasi.

I due ricercatori delle occulte cose udirono una voce che proveniva dall’esterno. Il Mago si alzò ancora leggermente stordito, Eliot posò su una mensola il suo preziosissimo oggetto e socchiuse la porta d’ingresso.

Una donna molto giovane, con l’aria piuttosto svanita lo stava osservando tenendo il Piota per la pelliccia del collo. La ragazza abbassò lo sguardo e disse:

 Lo seguivo che si era perso?  Ma poi ho visto che l’è entrà in casa e non so più niente che dopo un rumorasso che l’ha spoventome tuta. Ma alora te sei lo scalpelin che diceva mio zio!

– Tuo Zio?

– Ma si il Vincent! Che t’ha voluto bene e fato magnar da la fame che tenevi!

– Certo ricordo e tu come ti chiami?

– Luna! Come quela che ti brila nel cielo di note.

Sullo stipite della porta era apparso il Mago. Stette ad osservare i due giovani che parlavano amabilmente senza porgere, tuttavia, attenzione ai loro futili discorsi. La sua testa, perennemente focalizzata sul suo progetto magico, stava probabilmente elaborando qualche disegno nefasto che doveva interessare la giovane, in particolare.

Senza abbozzare alcun sorriso invitò i due ad entrare, con la scusa di offrir loro un poco di riparo dal freddo che stava giungendo da valle.

Timidamente Luna accettò, diede una mano a tirare su il tavolo e a togliere i cocci degli oggetti che cadendo si erano frantumati.

La grande ampolla di vetro nella quale il Mago aveva posto la poltiglia formata da vari pezzetti di carne, provenienti dagli animali che aveva catturato, bolliva ormai da tempo. L’Alchimista aveva aggiunto molte sostanze chimiche raccolte con grande pazienza nel corso degli anni, rispettando antiche ricette perse nella memoria dei tempi. La sua infanzia era stati segnata dalla presenza di un vero Maestro, un uomo esperto di Spagiria e di Magia rituale che si era affannato per scoprire sostanze in grado di risolvere i problemi psichiatrici dei suoi pazienti.

Il Maestro del Mago si chiamava Bernardus, era un medico piuttosto noto, innamorato della mente e dei misteri ad essa collegata. Agiva seguendo lo studio dei principi di analogia: operava nel proprio laboratorio preparando pozioni ricavate da animali e piante che in qualche misura e per qualche ragione fossero da mettere in relazione con disturbi della mente.

I suoi pazienti erano per la maggior parte donne, donne isteriche o depresse, persone disturbate che manifestavano le proprie patologie in varie forme, più o meno gravi.

Il Maestro le curava, trovando spesso soluzioni in grado di risolvere i loro disturbi, e le pazienti, per gratitudine o per conseguente coinvolgimento emotivo, finivano quasi sempre per concedergli le proprie grazie oltre che un cospicuo onorario.

Durante i primi insegnamenti impartiti al suo giovane allievo, Bernardus, volle esporgli una sua complicata teoria, secondo la quale ogni animale possedeva un Animus peculiare di quella specie o addirittura di quel particolare individuo.

Una Salamandra poteva essere considerata immune al fuoco, quindi se una donna aveva un temperamento piuttosto vivace, anche dal punto di vista sessuale, il Maestro la metteva in contatto con la pelle dell’Anfibio e ne verificava i risultati, qualsiasi essi fossero.

Il più delle volte le sue pazienti fingevano di trarre benefici dalle sue cure per poter continuare ad essere sottoposte alle sue attenzioni, il più delle volte le pazienti venivano fidelizzate, contribuendo al benessere fisico ed economico del loro Maestro.

Il Mago aveva compreso molto rapidamente quel genere di “giochetto” ed aveva affinato, anch’egli, molte tecniche di persuasione occulta che gli sarebbero servite in futuro, durante le sue più inquietanti ricerche.

All’inizio del suo lavoro aveva convinto alcuni vecchi e ricchi pazienti a considerarlo una sorta di figlio adottivo, al quale lasciare o meglio devolvere i propri beni.

Dopo aver racimolato un patrimonio consistente, morto di vecchiaia il suo Maestro, Guglielmo Rebaudengo si trasferì nei pressi di Ceva dove intraprese la sua vera attività di Alchimista. Tuttavia il  vero laboratorio ove compiva gli esperimenti era quello dove si trovava ora con Eliot, a qualche ora di cammino da Ceva, lungo la Via romana della Val Quazzola.

Lo sguardo del Mago era incollato al vetro dell’ampolla, il cui contenuto  aveva cambiato colore.

Una poltiglia grigia ribolliva creando vortici spiraliformi: piccolissimi frammenti irriconoscibili di animali fluttuavano nella massa opaca scomparendo e ricomparendo a intervalli irregolari, come persi in una densa nebbia autunnale.

Eliot e Luna stavano pochi passi indietro ad osservare quello strano fenomeno fisico. La luce del cero posto sotto l’ampolla creava lunghe ombre tremolanti che rendevano vivi tutti gli oggetti della stanza. Eliot immerso in quella seducente atmosfera era molto vicino alla giovane donna e percepiva il profumo e il calore della sua pelle. Tra i due ragazzi si era fin da subito creata una sorta di complice intesa, un legame sottile alimentato da un comune senso di attrazione che attendeva solo il momento più opportuno per esprimersi.

Luna, fingendo un certo interesse per l’esperimento dettato più dal timore che dalla curiosità, parlava sottovoce a Eliot, confidandogli ingenui dubbi e banali perplessità che avevano solo lo scopo di trasmettere una totale incomprensione per quella fenomenologia occulta e sconvolgente.

Il Mago fece un salto alzando le braccia e urlando:

– ORA! Questo è il momento! Ora presto Eliot prendi la boccia, MUOVITI!”!!!

Il giovane si precipitò verso il tavolo per raccogliere la boccia di terracotta che conteneva la Nuvola eterica chiusa con la lastra di vetro.

– Svelto mettila sopra l’ampolla e togli il vetro quando te lo dico io! ORA! VAI!

Eliot aveva svolto tutta le sequenza di operazioni con grande precisione e rapidità. Ora la Nuvola poteva entrare in contatto con il liquido in ebollizione. Il tempo sembrava essersi fermato, anche la piccola fiammella era immobile e così le ombre che creava.

Luna era rimasta inchiodata nella sua posizione osservando la scena come ipnotizzata. Pur comprendendo ben poco di quello che stava succedendo aveva inteso, dai movimenti dei due operatori dell’occulto, che si stava verificando qualcosa di grave e terribilmente importante.

La Nuvola eterica scese lentamente nella pozione, formando delle propaggini ameboidi che entrando in contatto con il liquido denso iniziarono ad assumere forme differenti. Lunghe dita di materia sottile presero maggior consistenza, manifestando disegni e immagini di parti di quegli stessi animali che erano stati usati per formare la poltiglia. Si formarono occhi, artigli, orecchie, piume, code, tentacoli, ali e molte altre forme di varie dimensioni, le parti che ora si vedevano attraverso il vetro dell’ampolla non rispettavano le proporzioni reali, ma sembravano adattarsi a quelle di un essere mostruoso che stava prendendo forma nel barattolo.

Un lampo di luce spettrale invase la stanza, seguito da un boato spaventoso che fece esplodere l’ampolla e cadere all’indietro sia Eliot che il Mago. Luna era rimasta in piedi a pochi passi dal tavolo e osservava quella massa grigia che, uscita dal vetro frantumato, ora si stava muovendo verso di lei prendendo forma e colore.

Eliot, impietrito cercò di allungare una mano verso Luna ma il Mago, balzato in piedi, gli diede una spinta che lo fece andare a sbattere contro il muro.

– Ora starai fermo, imbecille! Se proverai di nuovo a rovinarmi lo spettacolo ti staccherò la testa dal collo! Erano anni che aspettavo questo dannato momento, una giovane donna, forse addirittura vergine, e un demone potente che desidera possederla qui nel laboratorio, nel mio laboratorio!

Luna era rimasta immobile. La schiena incollata alla parete, terrorizzata per quello che stava osservando ma affascinata al tempo stesso.

Il demone che le stava di fronte muoveva lentamente i propri tentacoli, otto lunghe braccia tubolari sulle quali stava appoggiato e con le quali ispezionava l’ambiente che lo circondava. La Creatura alta circa due metri, appariva evanescente, con i contorni del corpo vagamente sfumati. Possedeva una testa triangolare, una sorta di piramide schiacciata dalla cui base si originavano i tentacoli. Due ali enormi da pipistrello spuntavano da dietro il capo, mentre una teoria di occhi di varie dimensioni tempestavano quella che doveva essere la faccia.

Luna aveva quasi smesso di respirare, cercava di fondersi con la parete alla quale era attaccata, sperando di esserne inghiottita. Provava uno sconcertante terrore, tuttavia le sembrava di percepire, al tempo stesso, un ambiguo e sconosciuto sentimento di eccitazione che si opponeva alla paura, trasformando quest’ultima in un crescente desiderio di contatto fisico con quell’Essere demoniaco.

La Creatura con movimenti lenti ma ben calcolati le si avvicinò, tenendo il proprio sguardo unito a quello di Luna con una forza impossibile da sovrastare. Il volto triangolare possedeva due occhi molto più grandi degli altri, due occhi che si erano fusi nello sguardo di Luna.

La poveretta piangeva dalla paura, ma al tempo stesso percepiva una diabolica attrazione che le donava un sottile piacere, come se quei lunghi tentacoli, che distavano da lei alcuni centimetri la stessero accarezzando nei punti più intimi.

Luna non aveva mai conosciuto quel tipo di sensazione, non aveva nemmeno mai baciato un uomo e non conosceva nulla poiché nessuno le aveva mai spiegato nulla. Non aveva neppure un comprensibile senso di imbarazzo perché non si era mai trovata in una situazione di vicinanza o di intimità con alcun essere.

Sua madre, la sorella di Vincent, era morta quando Luna aveva nove anni, suo padre morì tre anni dopo. Il vecchio Vincent l’aveva presa con sé dopo che rimase orfana e quando compì i quindici anni le permise di tornare da sola nella casa dei genitori.

Era una ragazza carina ma completamente analfabeta e si guadagnava da vivere coltivando un orticello o badando ai vicini di casa e a suo zio.

L’incontro con Eliot, all’apparenza casuale, si verificò perché Luna, circa dieci giorni dopo che lo scalpellino ripartì verso la Chiusa di San Michele, venne a sapere della sua presenza a casa dello zio. Tutte le persone che frequentava o che conosceva erano vecchi: tranne qualche bambino dei vicini, nessuno che potesse interessare una giovane in cerca di marito. Quando seppe della presenza di Eliot si infuriò con suo zio poiché non l’aveva informata e dopo lunghe insistenze poté conoscere la direzione che lo scalpellino aveva intrapreso. Facendo affidamento sul Piota seguì il sentiero che portava verso Nord Ovest, giungendo infine alla casa del Mago.

Ora tutto era cambiato.

La Creatura le era talmente vicino che Luna sentiva l’odore di ammoniaca che essa emanava. Vedeva il suo corpo pulsare come se un flusso interno di liquidi densi emergessero alla vista attraverso la cuticola trasparente dei tentacoli. La Creatura, avvicinandosi, fece aumentare la velocità dei suoi fluidi interni, denunciando anch’essa una strana forma di visibile eccitazione.

Con una inattesa delicatezza raccolse con un paio di tentacoli il corpo di lei, portandolo a contatto con il proprio. Dalla parte centrale, sita sotto la testa, estroflesse un particolare organo falliforme che introdusse nel ventre di Luna attraverso la via più naturale.

Eliot ed il Mago osservavano impotenti e paralizzati dalla paura quanto stava avvenendo.

Lo sguardo di Luna era perso nella luce diabolica che proveniva dall’essere, i movimenti del suo corpo e l’espressione conturbata del suo viso di adolescente denunciavano un evidente piacere, mai provato prima d’allora.

Nulla appariva reale, la luce della stanza era diventata quasi abbagliante, nessun suono riempiva gli spazi, un silenzio assordante cristallizzava il tempo che rinunciava a farsi percepire. La Creatura ora sembrava essere diventata un tutt’uno con la giovane: i loro corpi avvinghiati nel più erotico degli amplessi palpitavano insieme, fondendosi in un’unica massa biologica che li comprendeva entrambi.

Luna era stata come assorbita dalla Creatura, diventandone parte.

Con un movimento sempre lento ma straordinariamente preciso, due tentacoli afferrarono il Mago attorcigliandosi al suo corpo, stritolandolo come un mostruoso serpente. Gli stessi tentacoli portarono il corpo semi svenuto verso quello del Demone, dalla cui bocca si estroflesse una sorta di sottile proboscide che penetrò nel suo cranio. La Creatura iniziò quindi a digerire le parti molli del corpo del Mago, producendo un liquido acido che conteneva degli enzimi digestivi. Successivamente il Demone invertiva il flusso all’interno della propria proboscide per consentirgli di bere letteralmente la sua vittima.

Pochi minuti dopo il corpo svuotato del Mago venne gettato contro una parete della stanza, mentre Eliot, paralizzato dalla paura, attendeva il proprio turno.

La Creatura diabolica aveva inglobato nel proprio corpo quello di Luna, dopo averla sedotta fisicamente, e digerito quello del Mago per trarne nutrimento. Ora si era allontanato di qualche passo da Eliot con il quale tentò di entrare in contatto telepatico.

Il povero scalpellino sentiva che le gambe stavano per cedere dalla paura, lo spettacolo spaventoso al quale aveva assistito gli aveva fatto quasi perdere la ragione: gli sembrava naturale quanto aveva visto, e finì per provare una sorta di sentimento positivo verso quell’Essere diabolico.

Non avvertiva più il disgustoso odore di ammoniaca, probabilmente il pasto aveva compensato qualche squilibrio metabolico. Notò invece che il ventre del Demone si stava lentamente gonfiando fino a creare una sorta di globo semisferico. Quella palla di materia era circondata dagli otto tentacoli e dopo un’altra decina di minuti si creò una sorta di vagina dalla quale vennero partoriti due esseri umani.

I due neonati apparentemente non assomigliavano al Demone, erano piccoli come due infanti generati da una donna, ma molto più attivi ed evoluti.

Eliot vide che si erano alzati in piedi e che si stavano avvicinando. Fece prima un passo indietro, poi si fermò. Osservandoli vide che erano di sessi opposti e che la femmina assomigliava incredibilmente a Luna. Il maschio sembrava particolarmente robusto, continuò a procedere senza incertezze, avvicinandosi fino a toccarlo.

La mente di Eliot era completamente sconvolta.

Di fronte a lui, ad una distanza di pochi metri, si trovava l’enorme figura del demone. La Creatura  si  contorceva in terra, vinta da una forza sconosciuta che la stava dominando.

Il cadavere del Mago si trovava abbandonato sulle pietre del pavimento, svuotato di tutte le parti molli i cui residui avevano formato un lurido laghetto maleodorante che continuava ad essere alimentato dal suo corpo, o da quello che restava del suo corpo.

Il tempo all’interno della stanza laboratorio si era fermato, due delle tre candele erano cadute in terra creando piccoli laghi di cera, mentre la terza continuava a illuminare l’ambiente con la fiamma assolutamente immobile.

Eliot aveva lo sguardo fisso nel vuoto: probabilmente i suoi occhi non stavano mettendo a fuoco nessun piano preciso, le pupille erano immobili e non sembravano neppure appartenergli, tanto innaturale era la loro statica posizione.

Quando la piccola mano del maschietto sfiorò la sua, Eliot, non si scompose, raccolse delicatamente quella della bambina e rimase fermo al proprio posto.

Il Demone continuava a contorcersi premendo con i tentacoli quel grigio ventre che aveva partorito i due bimbi. Gli arti serpentiformi massaggiavano l’addome dando l’impressione di voler spingere fuori da quel corpo una nuova forma biologica. La vagina si dilatò enormemente e con inaspettata rapidità vennero alla luce due uova sferiche grandi quanto due grossi cocomeri.

Il loro colore appariva verde brillante con sottili striature di una tonalità più scura. La superficie esterna risultava rivestita da una patina mucosa che, dopo la deposizione, continuò a colare in terra.

Il Demone dopo aver deposto le uova si adagiò, rovesciandosi e spandendosi fino ad occupare un’ampia superficie del pavimento.

Eliot sembrava ipnotizzato, rimase immobile ad osservare la scena per più di un’ora. Quindi, come in trance, con un movimento meccanico, afferrò due tentacoli con le mani e trascinò il corpo inanimato del Demone fuori casa, fino a che non fu più visibile dall’abitazione. Quando rientrò vide con sorpresa che i due bimbi avevano fatto rotolare le uova verso un angolo buio della casa, ricoprendole di stracci, foglie e piccoli rami secchi. In pratica i due Esseri avevano creato una sorta di nido intorno alle uova, e ora gli stavano facendo un’attenta guardia.

In casa vi era ancora l’involucro del corpo del Mago, le cui ossa premendo contro la pelle, mostravano una sorta di scheletro rivestito da cute e stracci sbrindellati.

Liberatosi anche da quell’esuvia tutta umana, Eliot, pensò a Luna. Pensò a quella scena orrenda che l’aveva vista entrare nel corpo del demone dopo che questi l’aveva letteralmente assorbita e quindi fecondata. Eliot si illuse che la sua Anima immortale fosse trasmigrata nel corpo della bambina. Un momento dopo il suo grande stupore divenne incontenibile: i pargoli stavano crescendo quasi a vista d’occhio, adesso, a poche ore dalla loro nascita sembravano umani di sei, sette anni.

I loro lineamenti erano dolcissimi, i capelli biondi creavano intorno al viso di entrambi una sorta di cornice che li rendeva ancora più simili tra loro. Eliot poteva distinguerli solo dagli attributi sessuali, visto che non sembravano intenzionati a nascondere ciò che mostrava Madre Natura.

Più per riparali dal freddo umido che albergava nella casa che per motivi di ordine morale, Eliot diede loro alcuni vestiti che avrebbe fatto meglio a definire luridi stracci. Lo scalpellino, ripresosi parzialmente dallo choc creato dalla drammatica situazione, tentò di comunicare con loro a gesti e parole. Ogni volta che pronunciava il nome di un oggetto i bimbi lo ripetevano meccanicamente, comprendendone il significato e memorizzandolo immediatamente.

Neppure i verbi furono un problema, intuirono rapidamente il meccanismo delle declinazioni e la loro relazione con i sostantivi, pur nell’economia di una semplice grammatica.

Un rumore sordo di vaso frantumato attirò l’attenzione di tutti e tre: i bimbi ridendo corsero verso le uova. Eliot vide quelle due sfere muoversi sussultando mentre si formava su di entrambe una lunga crepa che si estese attraverso tutta la calotta superiore.

I bimbi abbracciarono le due grandi uova: il guscio si ruppe rapidamente, facendo emergere dal liquido viscoso due creature simili al Demone che li aveva generati.

Le teste triangolari degli Esseri appena sgusciati, si misero a vibrare per asciugarsi dalla poltiglia appiccicosa che li aveva accolti come una liquido amniotico. Lentamente due paia di ali membranose emersero a loro volta dalle uova, si distesero fuori dagli involucri mostrando tutta la propria spettacolare struttura.

Eliot osservava impietrito quel processo vitale innescato dal suo Maestro, il Mago. Sentiva su di sé il peso di una grande responsabilità, cosciente del fatto che avesse partecipato attivamente alla buona riuscita di quell’esperimento, piuttosto che contrastarlo sul nascere.

Ora di fronte a lui si palesava uno scenario raccapricciante: due esseri affini in tutto al Demone che li aveva generati erano entrati in stretta relazione con le piccole Creature biologicamente simili a Luna, la loro madre.

Il paradosso biologico vedeva la nascita di una improponibile relazione tra i due Esseri simili agli umani e i due Demoni, esattamente come vi era stata una relazione di natura sessuale tra il Demone e Luna.

A Eliot venne subito in mente di uccidere tutte e quattro le creature prima che quella razza ibrida si propagasse in modo esponenziale diffondendosi su tutta la Terra.

Appena divenne cosciente di quel pensiero di morte, i due bimbi gli si avvicinarono con fare molto aggressivo, spintonandolo in un angolo. La loro forza era sproporzionata rispetto alle dimensioni. Esercitarono contro il suo petto una pressione inimmaginabile che gli stava impedendo il respiro. Eliot avvertì un forte dolore al torace, la paura lo invase fino a paralizzarlo completamente.

Dopo un paio di minuti lo lasciarono andare, certi che avrebbe smesso di manifestare verso di loro la propria insensata aggressività.

La situazione all’interno della stanza era diventata molto difficile da controllare.

I due bambini erano da alcune ore intenti a comunicare con gli esseri nati dalle uova del Demone, isolati in un angolo buio della stanza. Tutto l’ambiente presentava uno spaventoso disordine: ampolle di vetro frantumate in terra, pozze di liquidi biologici sulle quali galleggiavano frammenti vegetali, blocchi di cera colata e solidificata, ogni genere di piccoli strumenti utili per gli esperimenti caduti e sbriciolati sul pavimento.

Due strisce disegnate in terra erano le scie che i due corpi, quello del Demone e quello del Mago, avevano tracciato quando Eliot li aveva trascinati fuori dalla casa.

Il nostro novello Alchimista si era parzialmente ripreso da quell’esperienza terrificante e stava cercando di rimettere insieme le idee quando vide il maschietto, che ora appariva come un uomo di vent’anni, era completamente avvolto dai tentacoli di uno dei Demoni nati dalle uova.

Eliot non riusciva a decifrare il senso di quello che gli si mostrava di fronte. Il giovane ormai avvolto del tutto dalla forma grigia di quel multiforme essere alieno, sembrava nuotargli dentro. Sembrava che i due corpi fossero le parti complementari di una struttura mostruosa che si stava componendo in quel momento preciso. Pochi istanti dopo lo sguardo di Eliot colse la stessa dinamica che ora stava interessando la ragazza e l’altro Demone.

La mente dell’Alchimista non avrebbe mai potuto comprendere la vera essenza di quel fenomeno straordinario che si stava svolgendo davanti ai suoi occhi. Non avrebbe mai potuto immaginare che quei due tipi di creature, gli “Umani” e gli Alieni, fossero in realtà solo due aspetti separati di un medesimo essere demoniaco che si stava manifestando su questo Pianeta. L’Essere, sconosciuta forma proveniente da un mondo parallelo, ma consustanziale al nostro, appariva come un Proteo con un volto angelico incastonato su di una testa piramidale, il cui corpo era una sorta di tronco dal quale si generavano otto tentacoli, due ali e due braccia, appoggiato su due gambe molto umane.

La Creatura, nel suo complesso, era composta da due esseri che potevano separarsi a piacere, mantenendo, tuttavia, uno stretto rapporto telepatico tra essi. La parte “umana” avrebbe potuto confondersi facilmente con qualunque altro essere del Pianeta, forse la differenza consisteva nel fatto che i lineamenti dei due ragazzi e i loro corpi erano sensibilmente più belli e armonici di quelli degli esseri umani, che abitavano la Terra.

Il mistero riguardava quello che avrebbero potuto contenere le loro menti e quanto di genuinamente umano avrebbero potuto manifestare.

Eliot ora appariva come un personaggio secondario di tutta la vicenda.

Il povero scalpellino era forse vittima di una diabolica allucinazione oppure quanto si era verificato appariva concretamente una realtà di quel momento storico così vicino all’anno mille?

La domanda se l’era posta anche il nostro sconvolto Alchimista, la risposta presentava ulteriori livelli di difficoltà.

La mente di Eliot stava vacillando. La scioccante esperienza non trovava alcun riferimento con esperienze note in grado di fornire valide spiegazioni. Le uniche due persone con le quali aveva avuto dei rapporti erano il Mago e Luna, entrambe vittime delle sperimento che aveva ucciso il primo e fatto assorbire nel Demone la seconda.

Quei due strani esseri, dalle fattezze quasi angeliche, erano una parte complementare di altrettanti Demoni con i quali formavano l’Essere alieno.

Le ridotte capacità cognitive dello scalpellino obbligavano la sua mente a creare delle spiegazioni accettabili che oggi potrebbero solo farci sorridere.

Eliot pensava che l’Essere nato dall’esperimento del Mago fosse un vero Demone infernale, uscito da qualche bolgia di teologica memoria. Pensava che i due giovani fossero Angeli caduti: come Lucifero, belli nell’aspetto ma malvagi nell’anima… ammesso che ne possedessero una.

Le uova deposte dal Demone, avrebbero potuto essere i figli di quell’essere proteiforme, ma non colse assolutamente l’importanza della complementarietà della mostruosa Creatura che poteva, a proprio piacimento, separarsi in due esseri distinti. La sua semplice mente, abituata più alla quotidiana battaglia con la pietra di cava che alle dotte speculazioni filosofiche, non riusciva a trovare un nesso logico tra gli avvenimenti che avevano interessato quella remota regione della Liguria.

Quando i due ragazzi, ormai cresciuti come due bellissimi adulti, gli si mostrarono di fronte, Eliot si mostrò impallidito, con i capelli del tutto bianchi e scavato nel volto dalla paura provata.

Le sue orbite erano evidenziate da scurissime occhiaie, il torace ancora dolente e un feroce mal di testa lo avevano reso quasi abulico, molto diverso dall’uomo che era giunto nella vallata poco tempo prima.

Dalla porta semichiusa entrò il Piota, scodinzolando si introdusse nella casa ma appena vide i due giovani si irrigidì sulle zampe inferiori abbaiando contro di loro.

Bastò uno sguardo e un gesto fatto alzando il braccio destro del giovane perché il cane smettesse immediatamente di ringhiare. L’animale mugolò sommessamente, abbassando le zampe anteriori e la testa fino ad accucciarsi, emettendo guaiti sempre più deboli.

I due ragazzi erano praticamente nudi, gli stracci che li avevano ricoperti quando erano dei pargoli ora riparavano solo alcune trascurabili zone del corpo; dovevano trovare una soluzione. Nessun senso di vergogna o di pudore sembrava interessarli, solo il disagio dovuto al freddo e la consapevolezza che gli umani dovessero essere vestiti li consigliò di togliere gli abiti dal corpo del Mago e di raccogliere da terra quelli strappati di Luna.

Eliot prese alcuni lacci appesi al muro suggerendo loro di riunire in qualche modo gli stracci creando dei vestiti. I risultati possiamo solo immaginarli, o forse neppure quello.

Una volta ricoperti alla bell’ e meglio si avviarono oltre la porta, baciati da alcuni raggi di Sole che raramente si notavano da quelle parti.

Gli esseri alieni, nati dalle uova, si rintanarono insieme in un angolo buio, scomparendo lentamente alla vista di Eliot.

Trovatosi solo l’alchimista si guardò intorno completamente perso, privo di ogni riferimento umano, solo con quel cane improbabile che ora sembrava essersi ripreso e che chiedeva continuamente cibo.

La sera Eliot e il cane si sedettero fuori dalla porta, osservando una Luna piena molto luminosa che rischiarava il bosco circostante. I suoni della notte raccontavano mille storie fatte di stridule grida di rapaci e urla di piccoli animali straziati dai propri carnefici. Il freddo era pungente e gli scarsi indumenti che ricoprivano il povero scalpellino non fornivano che ben poca protezione. Rientrarono in casa ed Eliot decise di accendere la stufa con la poca legna presente sotto la mensola posta vicino al camino.

Tutto era freddo e umido, la confusione che regnava nella sua testa e la quasi totale mancanza di cibo costituivano fattori negativi che aumentavano lo sconforto e il senso di solitudine.

Dall’angolo più lontano della stanza emerse la forma aliena che era nata dalle uova, un attimo dopo uscì anche l’altra.  Le due Creature si posero di fronte ad Eliot agitando lentamente i tentacoli fino a sfiorarlo. Le loro intenzioni non erano affatto chiare: le sottili propaggini dei tentacoli sembravano annusare l’alchimista, al tempo stesso non sembravano esprimere alcuna aggressività, piuttosto della inquietante curiosità.

Eliot comprese molto in fretta che in caso di colluttazione non avrebbe minimamente potuto sperare di cavarsela, si limitò ad assecondare le Creature tentando di comunicare con loro a livello mentale, pur manifestando una malcelata inquietudine.

Il Piota si alzò sulle zampe rimanendo immobile, benché un tentacolo della Creatura posta alla loro destra si fosse avvinghiato intorno al suo collo iniziando a trascinarlo lentamente verso di sé.

L’Essere polipoide lo assaggiò appena, introducendo l’apparato succhiatore nell’ addome del povero cane.

Evidentemente il sapore della sua carne non era così gradevole. La Creatura lo gettò contro il muro con evidente disgusto. Il Piota, barcollando, raggiunse l’uscita e di allontanò nel bosco vicino, emettendo dei latrati mai uditi prima d’allora.

Entrambe le forme aliene si avventarono su Eliot stritolandolo e succhiandone i liquidi con la proboscide estroflessa dal proprio ventre. Quello che rimase del povero Alchimista fu solo un mucchio indistinto di ossa, pelle e stracci gettati in un angolo della casa.

Usciti dall’abitazione i due ragazzi si diressero verso una luce metallica, posta nel cielo, che indicava loro la strada per raggiungere il lontano centro abitato di Ceva. In quel luogo, o forse in altre città si sarebbero riprodotti per poi congiungersi nuovamente alle loro metà aliene, trasformando quello che avrebbe dovuto essere “Il Sogno di un Alchimista” in un drammatico incubo per tutta l’Umanità.

 

 

 

FINE

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