CANTO DI SATURNO
Porgi la mano a me, antico dio,
che vaga nella notte sempiterna
menand’appresso a se, quelli che l’ fio
ha tratto giù, fin dentr’alla caverna.
E sono fissi e pigi come topi,
ch’il gelo della notte tutti iberna,
e livida la nebbia rende sopi,
coloro che la vita hanno passato,
ad invischiar, si come oritteropi,
le perle che la terr’ ha lor celato.
Stan chiusi, inglobati nella rocca,
urlando con il tono ormai spezzato,
ch’il suono, congelato nella bocca,
indentro si contrae come un verme,
e nota, non si può udir se scocca.
Ma non pensare che, l’infame inerme,
che può tradur mestizia nel tuo core,
sia sazio di pagar, con quell’inferme
passioni, sol l’assenza del suo amore.
Ammira quanto l’anima si strazia,
contratta nella morsa del dolore,
lontana, per sua scelta dalla Grazia,
che giunge da Ketér senza riposo,
donando quel saper, fatal a Ipazia.
Fu matrimonio sai, nudo di sposo,
contratto senza amor, che di se stessi,
che non ti può menare, che a ritroso,
strappandoti poi l’or, con gli interessi.
Risposta
Mostrami ‘l volto, nobile Signore,
che voce antica, persa nella notte,
si manifest’in me, come calore,
dicendo forse, cose troppo dotte,
ch’il mio pensier fatica in comprensione:
travolto dall’oblio, che tutt’inghiotte.
Mi parli di dannat’ in tua prigione,
son certo che la sort’ han meritato,
essendovi condanna, v’è una ragione,
a validar la scelta di lor Fato.
Venendo giuso a Te, ora li vedo,
immoti nel dolor, che sta immutato,
brandelli di coscienza, senza un credo,
racchiusi nel tuo ventre a disperare.
Ti prego grande dio, dammi congedo,
‘ché vista mia non pote sopportare,
il guardo delle tacite creature,
che fisse, sol dolor ponno provare.